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L'Espresso Rassegna Stampa
21.02.2021 'Giudei', Gaia Servadio. Il 25 febbraio la presentazione su Zoom
Recensione di Emanuele Coen

Testata: L'Espresso
Data: 21 febbraio 2021
Pagina: 72
Autore: Emanuele Coen
Titolo: «Ritratti di famiglia»
Riprendiamo dall' ESPRESSO di oggi 21/02/2021, a pag.72, con il titolo "Ritratti di famiglia", la recensione di Emanuele Coen.



Con il lockdown l'abbiamo riscoperta: tutti stretti in casa, tra le gioie e i dolori della convivenza obbligatoria. Con le limitazioni di questo tempo l'abbiamo riapprezzata, e allargata persino, perché i suoi componenti non rientrassero solo nell'etichetta troppo stretta di "congiunti". Così, a sorpresa, la famiglia ha ritrovato un senso che pareva perduto: frammentata e differenziata in una galassia di forme nuove, depotenziata da modi di stare insieme sempre meno tradizionali. Anzi, ampiamente reinventata: famiglie unigenitoriali, ricostruite e allargate, omosessuali, di fatto. Per contrappasso, o per nostalgia verso un tempo sbaragliato dalla contemporaneità, la famiglia nucleare ha attratto l'attenzione del mercato editoriale, dove saghe e vicende che scavallano le generazioni, intrecciandosi alla storia d'Italia, trovano il consenso dei lettori e scalano le classifiche: come dimostra lo sterminato successo di Stefania Auci, con la storia della potente famiglia Florio ("I leoni di Sicilia", edizioni Nord) o l'apprezzamento del romanzo di Daniela Raimondi, che ha ricostruito le vicende della famiglia Casadio, all'incrocio tra Lombardia, Emilia e Veneto ("La casa sull'argine", Nord). E ancora: la famiglia Sartori, quattro generazioni, dal 1917 al 2012, che si spostano dal Friuli rurale alla Milano contemporanea, affrontando due guerre mondiali e la ricostruzione, che rivive nell'ultimo romanzo di Giorgio Fontana ("Prima di noi", Sellerio). O quella della famiglia Orsini nel romanzo di Andrea Frediani ("I lupi di Roma", Newton Compton): storia di potere, amore, sangue. Una galassia di amicizie, affetti, incontri è anche quella di Gaia Servadio, scrittrice, giornalista e pittrice, un intreccio di relazioni con una certezza al centro: la famiglia, o meglio le famiglie che ciascuno accumula nell'arco dell'esistenza: quella ebrea in cui nacque a Padova nel 1938, l'anno orribile delle leggi razziali, figlia di Luxardo Servadio, un chimico sodale di Enrico Fermi e Primo Levi, e quella attuale, che comprende il secondo marito, Hugh Myddelton Biddulph, i tre figli nati nel primo matrimonio - Owen, Orlando e Allegra, prima moglie del premier britannico Boris Johnson - e cinque nipoti. Affetti da coltivare, conflitti da gestire, legami complessi da comporre, smontare e rimontare. «La mia famiglia rappresenta l'unità, nel bene e nel male. Con la sua forza, che non è sempre benevolenza. Mentre la famiglia che se riè andata genera dentro di me profonda tristezza e sensi di colpa», dice Servadio, con la voce affaticata a causa del Covid che la costringe nella sua casa di Londra, città dove abita da quando aveva diciott'anni e frequentava la St. Martin's School of Art. Le radici restano salde, appena possibile tornerà nella residenza di campagna in Umbria, tra Amelia e Todi. Una vita intensa e mondana, la sua: con Philip Roth, conosciuto a un pranzo insieme a Martin Amis e Mick Jagger, con Alberto Arbasino. E con Mary McCarthy, di cui è stata amica, donna severissima e a suo dire grande cuoca. O con Isaiah Berlin, accomunati dalla passione per la musica. Tra le parole e nelle pagine dei romanzi di Gaia Servadio emergono suggestioni rimaste nell'ombra, memorie troppo dolorose da rievocare. Fin dai tempi di "Un'infanzia diversa" (Rizzoli), uscito più di trent'anni fa, in cui racconta l'infanzia segnata dalla Shoah e dalla persecuzione nazifascista con gli occhi di una bambina. «Era un racconto intimo, conteneva fotografie. Mia madre e mia sorella erano contrarie alla pubblicazione, il mio editor invece fu fantastico», sottolinea l'autrice. ll nuovo romanzo, "Giudei" (Bompiani), offre un'ulteriore occasione per fare i conti con il passato. La saga di due famiglie ebree molto diverse tra loro, che uniscono le proprie strade, raccontate attraverso tre generazioni. In mezzo due guerre, le leggi razziali, nuove famiglie, bambini, le persecuzioni, il fronte, le partenze, le perdite.

La voglia di continuare a vivere - in Italia, Israele, altrove - nonostante tutto. I figli di Zaccaria con i loro nomi letterari, Ariel, Cielo, Miranda; la piccola luminosa orfana Giovanna; Kate, in fuga coraggiosa dalle bombe con i suoi bambini; Prospero, dalla resistenza alla politica. Tutto comincia con un matrimonio combinato tra Zaccaria Levi e Rebecca Foà, tradizione piuttosto diffusa all'epoca anche tra i non ebrei. «Non mi scaglio né pro né contro: un matrimonio combinato come quello del mio romanzo è buono, tutte le unioni hanno lati positivi e negativi. Era difficile incontrare una persona se non in sinagoga, per chi abitava in città diverse era complicato». I Levi, intellettuali, appassionati di arte, innamorati dell'Italia e dell'italiano, marchigiani aperti al mondo. E i Foà, torinesi e filosabaudi, figli di una piccola borghesia chiusa e conservatrice. Un'impostazione che fin dal principio mette da parte gli stereotipi sul mondo ebraico, restituendone complessità e sfumature. Una vicenda in cui riaffiora l'esperienza dell'autrice, perseguitata e costretta a riparare con genitori e fratelli a Falconara e poi a Osimo, nell'entroterra di Ancona, Due gruppi familiari estremamente diversi si uniscono nel romanzo di Gaia Servadio, dando vita a un' articolata indagine intorno al tema dell’identità sempre più clandestini e privi di mezzi. «Nel mondo ebraico la famiglia, con i suoi contrasti, le ostilità, le opinioni, le espressioni linguistiche, è sempre stata centrale», riflette Servadio. «L'antisemitismo, le leggi razziali e la Shoah hanno distrutto le famiglie. E la diaspora seguita alle deportazioni è stata un modo per distruggere la comunità ebraica. In un certo senso, purtroppo, ci sono riusciti». I Levi sono l'avamposto di una borghesia di provincia emergente, colta e raffinata, appassionata di musica lirica, viaggi, libri, progetti, aperta alla modernità Ebrei, ma anzitutto italiani. «Il carattere eterogeneo delle comunità ebraiche in Italia, seppure con le loro radici comuni, mi ha sempre affascinato e finché vivrò mi interesserà», prosegue Servadio: «Gli ebrei marchigiani erano tendenzialmente laici, anche dal punto di vista politico, proprio perché rinchiusi nei ghetti a lungo, circondati dall'ostilità. Ammiro la loro straordinaria, quasi sorridente, volontà di farcela, di andare avanti senza lamentarsi. La loro fede nel futuro». La storia comincia nel febbraio 1903, quando Zaccaria e Samuele Levi, cugini e amici, vagano in calesse per la Lucchesia. Il primo lavora nella banca di famiglia, l'altro è un giovane ingegnere che sogna di diventare un impresario musicale. A unirli è la passione per l'opera e per Giacomo Puccini che incontrano subito, nelle prime pagine, come ricorda Aaron, il nipote di Zaccaria. I due se la spassano scorrazzando nella campagna toscana «pensando alla finocchiona che avrebbero mangiato (all'inferno i dettami kosher: gli ebrei italiani non vivevano nel deserto, dove la carne di maiale poteva essere pericolosa) e al chianti che avrebbero bevuto».

Il loro mito è il compositore Giacomo Puccini, di cui conoscono a memoria tutte le arie. Nel bel mezzo del loro viaggio lo trovano tra un albero di olivo e un cipresso. Sotto la sua automobile, una Isotta Fraschini che gli si era ribaltata addosso, accanto a lui una ragazza svenuta, leggermente ferita. Soccorso dai due cugini, Puccini chiede a Samuele come si chiama e capisce di avere davanti a sé un ebreo. «Madonna santa, un giudeo... tutti a me dovevano capitare! Più ebreo di così non si pub... Non mi tradirai vero?», reagisce il compositore, aggiungendo: «Sei uguale a me... insomma, non si direbbe che sei ebreo, neanche il naso storto hai». Parole come pietre, che feriscono Zaccaria. «Puccini era un toscanaccio straordinario ma veniva da una famiglia di beghine, lontanissima dal mondo ebraico», riflette Servadio. Già l'espressione utilizzata da Puccini, "giudeo", è dispregiativa, tradisce il pregiudizio, l'anticamera dell'antisemitismo. La stessa espressione dà il titolo al romanzo, una scelta provocatoria. «Prima di decidere ho riflettuto a lungo, all'inizio pensavo di chiamarlo "Ebrei". L'idea Gaia Servadio a fondra, nel 1968, con la figlia era far capire che ebrei, italiani e giudei sono tutti esseri umani, che per ragioni storiche assurde sono stati divisi». Al di là della religione, con tutte le differenze tra rituali e pratiche, resta cruciale indagare il tema dell'identità, perché le distanze si accorciano e i confini si fanno più sfumati. Forse è questo l'aspetto più affascinante del romanzo. La descrizione di un mondo scomparso in modo repentino, cancellato dalle leggi razziali, famiglie divise «per ragioni storiche assurde». Per la scrittrice la Un mondo improvvisamente cancellato riappare tra le sue pagine: persone accomunate da interessi e passioni, divise da ragioni storiche assurde memoria degli anni più bui è ancora viva. Come quando le dissero che avrebbe cambiato cognome, prima in Prinzi, e poi in altri. «Per anni non riuscii a dire il mio nome, ne avevo vergogna. Quando a scuola scandivano "Servadio" mi nascondevo. La parola ebreo non scotta solo da qualche tempo». La scrittrice conserva i nomi e i volti di chi salvo la vita a lei e alla sua famiglia mentre erano a Osimo. Da tempo si batte per ottenere a favore di Gioconda Gallo uno spazio nel Giardino dei Giusti nello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, che conta 750 italiani. «Dopo la guerra ho saputo che aveva salvato altre persone, tra cui la famiglia Franchetti. Ormai sono l'unica testimone. Non ho vantaggi a testimoniare a suo favore, l'unico vantaggio è fare il mio dovere».

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