Il messaggio di Isaiah Berlin al Ventunesimo secolo
Commento di Diego Gabutti
Isaiah Berlin
Gli orrori, nella nostra epoca, sono stati «causati dalle idee; o meglio, da una specifica idea», spiegava nel 1988 Isaiah Berlin, pensatore liberale, filosofo della politica, professore a Oxford e studioso delle idee pericolose. Erano gli ultimi giorni dell’Unione sovietica e Berlin faceva notare come fosse «paradossale» che proprio «Karl Marx – il quale sminuiva l’importanza delle idee di fronte alle impersonali forze economiche e sociali – abbia provocato con i suoi scritti la trasformazione del XX secolo, sia nella direzione che egli auspicava, sia, per reazione, nella direzione opposta».
Ricordò che Heinrich Heine, «in una delle sue opere», ci aveva esortato «a non sottovalutare il filosofo silenzioso seduto nel proprio studio: se Kant non avesse distrutto la teologia, scrisse, forse Robespierre non avrebbe tagliato la testa al re di Francia». Anche Aleksandr Ivanovič Herzen, l’intellettuale russo moderato di cui Berlin aveva studiato a fondo l’opera, aveva spiegato «che il suo tempo era testimone d’una nuova forma di sacrificio umano, dell’immolazione di esseri umani sugli altari delle astrazioni: Nazione, Chiesa, Partito, Classe, Progresso, le Forze della Storia». Era l’ouverture del secolo breve, quando leader carismatici avrebbero preso la testa di movimenti politici che avevano le Astrazioni per bandiera – movimenti la cui vastità, influenza e brutalità erano inimmaginabili persino dopo la rivoluzione del 1848, l’epoca di Herzen e Heine. Fu l’idea che la società perfetta – una società «giusta, felice, creativa e armoniosa» – fosse a portata di mano, purché la mano non tremasse, che spinse a credere «che nessun prezzo sarebbe stato troppo alto, pur d’ottenerla. (…) Se questa è l’omelette, non c’è limite al numero di uova che si devono rompere. Era questa», scriveva Berlin, «la fede di Lenin, di Trockij, di Mao e, per quel che ne so, di Pol Pot». Era la fede di Hitler, delle giunte militari sudamericane, degli ayatollah iraniani, dei talebani (e, nel loro piccolo, è anche la fede dei moderni leader populisti europei, sia «moderati» che deliranti).
La copertina (Adelphi ed.)
Ma ecco che le tempeste della storia si stavano finalmente placando. Così pensava Berlin nel 1988 e nel 1994, quando lesse le due brevi conferenze oggi raccolte da Adelphi in Un messaggio al Ventunesimo secolo: il secolo breve era finito, la Russia non era più l’URSS, economia di mercato e libertà politiche si diffondevano ovunque e il filosofo inglese, nato in Lettonia nel 1909, scomparso a Oxford nel 1997, scommetteva sul XXI secolo, nella convinzione che «potrà solo essere un tempo migliore per l’umanità di quanto sia stato il mio terribile secolo. (…) Ho il rimpianto», scriveva, «di non poter vedere questo futuro più luminoso che sono convinto stia per arrivare. Con tutto il pessimismo che ho propagato, sono felice di chiudere su una nota d’ottimismo». Come sappiamo, il suo era un ottimismo prematuro, che presto sarebbe stato smentito dalla comparsa di nuove idee pericolose, anzi «idee assassine», come le chiamò Robert Conquest, lo storico del terrore staliniano. Incubo non più «laico» ma religioso, anche l’islamismo coltiva, come il nazismo e il marxismo-leninismo, un sinistro proposito di riforma generale del mondo. Biosogna guardarsi dall’utopismo radicale, ma anche l’ottimismo illuminato è diventato un’idea azzardata: la storia vira da sempre, fin dalle origini del mondo, verso l’inimmaginabile, e l’idea che possa cambiare, diceva Berlin, è precisamente «l’idea di cui parlavo, e ciò che desidero dirvi è che essa è falsa».
Diego Gabutti