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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
14.02.2021 Libia: chi è Abdul Hamid Dabaiba
Commento di Roberto Bongiorni

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 14 febbraio 2021
Pagina: 8
Autore: Roberto Bongiorni
Titolo: «Dabaiba, l'uomo che dà speranza alla Libia»
Riprendiamo dal SOLE24ORE di oggi, 14/02/2021, a pag.8, con il titolo "Dabaiba, l'uomo che dà speranza alla Libia" l'analisi di Roberto Bongiorni.

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Abdul Hamid Dabaiba
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Roberto Bongiorni

Pragmatico lo è senz'altro. Per come si è presentato, Abdul Hamid Dabaiba, il premier designato a guidare il nuovo Governo libico di transizione, e traghettare il Paese alle elezioni del prossimo 24 dicembre, riesce a essere l'amico di tutti in un Paese finora paralizzato da rivalità e inimicizie. Piace ai politici di Tripoli, così come piace al generale Khalifa Haftar, il signore della Cirenaica che all'esecutivo di Tripoli aveva dichiarato guerra. Per i nostalgici del regime, che in Libia non sono pochi, resta comunque un uomo che ha avuto legami con il clan Gheddafi (per quanto cerchi di sminuirli). «Anche noi abbiamo il nostro Mario Draghi», ci raccontano da Tripoli alcuni suoi fervidi sostenitori. Eppure la lista di Dabaiba, 62 anni, businessman originario di Misurata laureato in ingegneria, non era certo la più accreditata in seno al Libyan Political Dialogue Forum tenutosi a Ginevra il 5 febbraio. I nomi "forti" erano Agila Saleh, capo del parlamento di Bengasi e candidato alla guida del Consiglio presidenziale, e il ministro degli Interni Fathi Bishaga, uomo di Misurata, candidato premier. «Questa scelta è frutto di una coalizione di interesse da parte di vari gruppi che non volevano Saleh e Bishaga. Si tratta non di un voto di sostegno a Dabaiba, ma di rigetto all'altra lista», spiega al Sole 240re Claudia Gazzini, analista perla Libia all'International Crisis Group (Icg). Anche i tre membri designati del Consiglio presidenziale non erano i più attesi: il presidente sarà Mohanunad Younes Menfi, ex ambasciatore in Grecia originario di Tobruk, in Cirenaica. I due vicepresidenti sono Abdullah al-Lafi e Musa alKuni, originari della Tripolitana e del Fezzan. In questo modo sono rappresentate le tre grandi regioni della Libia Mercoledì 17 febbraio cadrà il 10° anniversario dello scoppio della rivolta contro Gheddafi, presto degenerata in una guerra civile e terminata con la morte del dittatore, otto mesi dopo, a Sirte. Da allora la Libia non ha mai avuto pace.

Un coacervo di milizie rivali ha reso vani gli sforzi dei Governi che si sono succeduti. Fino alla guerra dell'estate 2014, che ha spaccato il Paese. Da allora Tripolitania e Cirenaica vivono come fossero due Stati separati, ognuno con le proprie istituzioni. L'esperimento uscito dagli accordi di Skhirat (fine 2015), per un Governo di accordo nazionale sostenuto dall'Onu, insediatosi nel marzo 2016 e guidato dal premier Fayez Serrai, non ha portato i risultati sperati. «Serraj si è rivelato un premier debole — racconta al Sole 24 Ore Ashraf Shah, ex consigliere dell'Alto consiglio di Stato libico -. Ma il processo di transizione volto a portare al voto di dicembre è a mio avviso mal congegnato. L'impianto somiglia agli accordi di Skhirat». Ci risiamo. Uomini nuovi, paure vecchie. Anche questo Governo sarà destinato ad arenarsi davanti alle divisioni, in una sfida che si annuncia titanica? Torneranno a parlare le anni? La cautela è d'obbligo. Ma Dabaiba pare aver strappato molti consensi. Certo si vocifera che per accontentare tutti dovrà formare un maxi Governo, con 10 ministeri. Il clima sembra però cambiato. Pur con qualche violazione, il cessate il fuoco firmato il 23 ottobre tra le delegazioni di Haftar e Serraj, sotto l'egida dell'Onu, sembra tenere. Sono trascorsi quasi due anni dal 4 aprile 2019, quando l'esercito di Haftar diede inizio all'assedio di Tripoli. Grazie all'intervento militare turco, le forze di Haftar sono state costrette a ritirarsi 450 km più a Est, a Sirte, dove sono stati dispiegati i mercenari russi della Wagner. È questa la nuova "linea di confine". «L'Egitto ha caldeggiato un referendum costituzionale, poi una nuova legge elettorale. Ma secondo la Commissione elettorale libica ci vogliono sette mesi solo per approvare il referendum costituzionale. Sempre che passi», sottolinea Ashraf Shah. «I tempi per arrivare al voto rischiano di essere più lunghi - gli fa eco Claudia Gazzini -. Ma qualcosa pare cambiato. Il tono più conciliante che i due schieramenti rivali hanno adottato sembra orientato a un risultato potenzialmente diverso rispetto ai fallimenti del passato». Va in questa direzione l'inatteso riconoscimento di Dabaiba da parte di Haftar, che appoggiava un'altra lista. Quanto a Menfi, futuro capo del Consiglio presidenziale, vicino proprio a quell'islam politico che Haftar vedeva come fumo negli occhi, il fatto che giovedì sia stato ricevuto dal generale a Bengasi con tanto di tappeto rosso è emblematico. «Dopo il risultato di Ginevra - ci spiega Ahmed el-Gehani, rappresentante dello Stato libico alla Corte internazionale penale dell'Aja - qui a Bengasi è finalmente tomato un tangibile ottimismo tra la gente. Prima la situazione era stabile, in negativo. È vero, c'è carenza di medicinali e generi di prima necessità, e i prezzi si sono impennati. La popolazione sta soffrendo. Ma in tutta la Libia». In Libia, tuttavia, non sono più i libici a deridere, non solo loro. L’ultima parola spetta alle potenze straniere che sostengono, con denaro, armi, mercenari, anche con propri militari, i rispettivi schieramenti. Russia, Emirati Arabi ed Egitto dalla parte della Cirenaica. Qatar e Turchia da quella di Tripoli. Eppure, anche qui si percepisce un cauto ottimismo.

La Russia ha esternato il suo sostegno ai nuovi leader designati del Governo e del Consiglio presidenziali. Meno prevedibile che lo facessero anche i presidenti di Egitto e Turchia. Quanto ai Paesi occidentali, Usa, Italia, Germania, Francia, e Regno Unito hanno espresso congiuntamente il loro supporto. Certo, lo storico ruolo dell'Italia in Tripolitana ne esce ridimensionato, pur se ancora importante. A dettar legge sono ora i turchi, che si sono assunti anche il compito di addestrare le forze militari locali. Le imprese turche sono ben posizionate per fare incetta di molte future commesse, soprattutto nel settore edilizio, ma non solo. A spese di altri. Il ruolo dell'Eni, primo operatore straniero in Libia, resta insostituibile. Con il gas che estrae, la major illumina la capitale Tripoli e molte città della Tripolitana. La sua posizione è solida e tale resterà. «È bene precisare che si tratta di un premier e di un Consiglio presidenziale finora designati. Che dovranno ricevere il voto di fiducia del Parlamento. Sarà una sfida complessa mettere insieme il Parlamento, diviso in un gruppo a Tobruk nella Libia orientale e l'altro a Tripoli», continua l'esperta dell'Icg. In Libia poi ci sono ancora molte, troppe milizie. Il loro disarmo è statala priorità dei premier succeduti dal 2011. Invano. «La priorità oggi è la riunificazione delle istituzioni. Il disarmo può venire in seguito», conclude Gazzini. «È una situazione complessa - spiega el Gehani -, Dabaiba ha le potenzialità per dare risultati positivi, come il Consiglio presidenziale. Riunificare le istituzioni e le forze armate richiede però tempo. Otto mesi paiono pochi». Ma anche in questo caso vi è un altro comune interesse capace di mantenere invita il neo esecutivo: il petrolio. Caldeggiato da Usa e Onu, da settembre è in vigore un meccanismo che prevede che le rendite petrolifere non siano più gestite dalla Banca centrale ma siano congelate in un conto della Compagnia petrolifera nazionale presso la Libyan Foreign Bank. In un Paese che vive di petrolio è un colpo durissimo. La crescente povertà rischia di sfociare in rivolte. I leader di Tripoli e Bengasi sanno che per rivedere i petrodollari (in dicembre più di un miliardo) dovranno sostenere la transizione. «Questo meccanismo è la giusta soluzione per avere finalmente certezza su dove confluiranno i proventi petroliferi», precisa el-Gehani. Certo, le elezioni appaiono un traguardo lontano. C'è poi un altro problema. Ammesso che le armi tacciano, quanti libici si recheranno alle urne in un Paese con pochi mezzi per difendersi dal Covid e in grave ritardo sul fronte vaccinazioni?

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