La grande Vienna ebraica descritta da Riccardo Calimani Recensione di Diego Gabutti
Testata: Italia Oggi Data: 13 febbraio 2021 Pagina: 11 Autore: Diego Gabutti Titolo: «Ai tempi della grande Vienna»
Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi 13/02/2021, a pag.11 con il titolo "Ai tempi della grande Vienna", il commento di Diego Gabutti.
Diego Gabutti
Riccardo Calimani, La grande Vienna ebraica, Bollati-Boringhieri 2021, pp. 240, 13,00 euro
"Gioiosa apocalisse» per Hermann Broch, «laboratorio sperimentale per la fine del mondo» secondo Karl Kraus, Vienna non fu una semplice città ma una Weltangschaung, come Londra sotto la Regina Vittoria e San Pietroburgo nelle pagine di Dostoevskij. A Vienna (la Vienna della belle époque e della grande guerra, la Vienna pre Anschluss) andò in scena la modernità in ogni sua possibile forma: la guerra alla repressione sessuale, la denuncia dell'ornamento nell'arredamento e nell'architettura, il superamento della musica sdolcinata e l'impennata improvvisa delle dissonanze, il socialismo dei professori e la nouvelle vague psichiatrica. Una delle forme della modernità, tra le più gettonate nei circoli culturali della capitale austriaca, era ciò che passava per Tradizione con una grossa, minacciosa «T» maiuscola, come racconta Riccardo Calimani nel suo La grande Vienna ebraica. Con «tradizione» s'intendeva la stessa utopia (ma rovesciata) che gli antitradizionalisti intendevano con «progresso»: un mondo rigenerato, sia che si mirasse a recuperare un passato mitico e perduto, sia che si spiasse l'alba imminente e radiosa in cui sarebbe infallibilmente sorto, scacciando ogni nuvola dall'orizzonte, il sol dell'avvenir. Rigenerare il mondo aveva naturalmente i suoi costi, e nessun campione di questa Fu sempre nella Grande Vienna che Theodor Herzl si trasformò, da dandy e autore di brillanti feuilleton giornalistici, nel profeta che dopo l'Affaire Dreyfus (che aveva seguito da reporter) mette in campo l'opzione sionista: impossibile convivere con i gentili, e in ogni caso urgeva lasciarseli alle spalle prima che «la tempesta antisemita», le cui prove generali sono cominciate anche a Vienna, «travolga l'intera Europa» particolare modernità utopistica se lo nascondeva.
Qualcosa, o meglio qualcuno, andava sacrificato (perché «non c'è modo di fare la frittata», come avrebbe poi detto Lenin, «senza rompere qualche uovo, tovarisch»). In cima alla lista, inutile dirlo, «i giudei». «Tradizionale, naturalmente, era prima di tutto l'antisemitismo, che non dava la caccia soltanto agli ebrei assimilati, campioni di sovversione progressista, ma anche a quelli che a loro volta erano ancora devoti alle tradizioni ebraiche, liquidati da destra e sinistra come fossili sociali: non ebrei ma «giudeosauri». Era un antisemitismo di tipo nuovo, per lo più indifferente (a meno che non tornasse utile) al lato religioso della «questione ebraica», come l'aveva definita Marx in un suo fortunato (e sciagurato) libello. Non si trattava più, come un tempo, sotto altre lune teologiche, di pareggiare il conto con gli assassini di Cristo Gesù. Da «religiosa», la «questione ebraica» era diventata «razziale», e pertanto non c'era più modo di porvi rimedio con la conversione o con altri aggiustamenti ideologici. Essere ebrei era diventata una condizione irrimediabile. C'era qualcosa di sbagliato, agli occhi dei moderni antisemiti, nel fatto che i «giudei», «biologicamente» parlando, non erano ariani, e che le loro culture (più d'una, e spesso in aperto conflitto tra loro) erano sempre troppo avventate, cioè sovversive, o d'avant-garde. C'erano gli ebrei — con le loro aberrazioni intellettuali e (come presto si sarebbe proclamato) con i loro complotti — all'origine della democrazia e del socialismo. Ciò agli occhi dei tradizionalisti. Agli occhi dei progressisti, invece, erano i «giudei» ad alimentare la macchina del capitalismo e della grande finanza.
A Vienna, poi, erano gli ebrei ad agitare le bandiere delle più spericolate eresie moderniste: la psicoanalisi, la critica della cultura, la nuova linguistica, la sex revolution. C'erano ebrei ovunque, in particolare (strano caso) tra gli antisemiti. Uno di loro era il giovanissimo Otto Weininger, autore nel 1903 di Sesso e carattere, libro misogino e particolarmente ostile alla «donna ebrea», a suo dire incapace di distinguere tra bene e male. Ebbe talvolta (più spesso del lecito) un occhio di riguardo per gli antisemiti anche Karl Kraus, che pure fu l'intelletto più lucido e smagato della Grande Vienna (insieme al commediografo Arthur Schnitzler, che gli antisemiti liquidavano come pornografo). Fu sempre nella Grande Vienna, in compenso, che Theodor Herzl si trasformò, da dandy e autore di brillanti feuilleton giornalistici, nel profeta che dopo l'Affaire Dreyfus (che aveva seguito da reporter a Parigi) vide abbastanza lontano da mettere in campo l'opzione sionista: impossibile convivere con i gentili, e in ogni caso urgeva lasciarseli alle spalle prima che «la tempesta antisemita», le cui prove generali sono cominciate anche a Vienna, «travolga l'intera Europa». Snobbato dalla borghesia ebraica, messo in burletta dall'intellighenzia colta e assimilata, il sionismo diventò a sorpresa la bandiera del proletariat ebraico, dilagando da Vienna ai ghetti dell'est europeo. Come l'intendenza, gl'intellò ebraici seguirono, ma non subito, solo a tempesta divampata, quando il programma sionista e il nazionalismo ebraico, da temerario e bislacco programma estremista, si trasformò nella più realistica delle vie di fuga — disgraziatamente impraticabile sulla scala che sarebbe stata necessaria. Non soltanto storico, ma anche grande narratore, Riccardo Calimani racconta il momento magico della grande Vienna, quando al tavolino dei bistrot sedevano Stefan Zweig e il suo grande amico Joseph Roth, quando Ludwig Wittgenstein lavorava al Tractatus e si consumava nell'ombra delle sue nevrosi, quando Sigmund Freud fondava la Società di Psicoanalisi distribuendo anelli di riconoscimento ai membri del circolo ristretto, quando Karl Kraus chiamava il giornalismo «magia nera» (dategli torto, anche adesso, due o tre epoche storiche più tardi). Calimani mette in scena l'Austria ormai ben poco «felix» ma ancora capace, dopotutto, di ballare un valzer o d'entusiasmarsi per le opere della secessione viennese. E la Vienna delle nevrosi svelate, dei Girotondi schnitzleriani e della metropolitana, del Mondo di ieri e di Oskar Kokoschka, della Marcia di Radetzky, dell'Accademia di belle Arti, della Tradizione e del Progresso indistinguibili tra loro, di Hitler giovane, dell'antisemitismo e della grande cultura ebraica. A un capo «il socialismo degl'imbecilli» così bollato dai cosiddetti marxisti accademici, all'altro capo Auschwitz; La grande Vienna nel mezzo.
Per inviare a Italia Oggi la propria opinione, telefonare: 02/582191, oppure cliccare sulla e-mail sottostante