E’ il febbraio 2019: il presidente Xi Jinping stringe la mano di Mohammad bin Salman. Il principe saudita indossa la classica jalabia bianca e la kefiah a scacchi bianchi e rossi, il leader cinese un abito scuro e cravatta da businessman occidentale. Gli sguardi, sornioni e rassicuranti, si incrociano. A giugno, pochi mesi dopo l'incontro con bin Salman, Xi Jinping vola in Kirghizistan per incontrare il nemico acerrimo di Riad, il presidente iraniano Hassan Rouhani. Nelle immagini il leader persiano ha un atteggiamento compiaciuto, il leader cinese più che sicuro di sé. Questi due scatti potrebbero essere la sintesi del nuovo mondo che sta nascendo in Medio Oriente. L'America, esausta per le guerre infinite in Iraq e Afghanistan, parla di «ritiro». La Cina si tuffa nel vuoto che si è creato, con tutta la sua forza commerciale. Dalla sua parte ha il vantaggio di non parlare mai di diritti umani o democrazia. Fa affari con teocrati sciiti, dittatori laici e monarchi sunniti. Alla fine tutti hanno bisogno degli investimenti di Pechino e vendono petrolio in quello che è diventato il più grande mercato per l'energia al mondo. È Xi lo sa e ha fatto della regione più martoriata dai conflitti il perno della sua egemonia. Da quando è diventato presidente, nel 2013, ha trasformato il Paese da potenza regionale in mondiale, lanciando il piano più importante da secoli: la nuova Via della seta, la Belt and Road initiative, che connetterà di nuovo la Cina al Golfo, al Mar Arabico, al Mar Rosso per arrivare al Mediterraneo. E tutte le strade passano dal Medio Oriente. Per questo la nuova amministrazione americana di Joe Biden dovrà ponderare con molta attenzione le sue mosse nella regione.
Già si parla di rinvio del ritiro dall'Afghanistan, proprio per non lasciare campo libero a Pechino. Perché i progetti infrastrutturali cominciano a prendere corpo, uno dopo l'altro, e la penetrazione sembra irresistibile. 'Ritti gli Stati del Golfo hanno firmato contratti di costruzione di infrastrutture con imprese cinesi. Come quello per il Lusail Stadium del Qatar - sede principale per la Coppa del mondo del 2022 -, la raffineria Yanbu dell'Arabia Saudita e la linea ferroviaria ad alta velocità che collega Gedda con la Mecca e Medina, un progetto da 1,8 miliardi di dollari. Ma le relazioni del gigante asiatico con i leader mediorientali sono fittissime e non si fermano qui. Molti sono andati in Cina più di una volta negli ultimi cinque anni. Il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi ha visitato almeno sei volte Pechino da quando si è insediato nel 2014. L'ultima, ad aprile 2019. Nell'incontro i due leader Al-Sisi e Xi si stringono la mano e c'è tra loro una intesa che vale più di tante dichiarazioni. Ogni summit tra i due ha comportato la firma di diversi memorandum commerciali. Per esempio, una compagnia cinese controlla il porto strategico di Alessandria e Pechino ha pure finanziato la nuova capitale egiziana con 4,5 miliardi di dollari. Per la costruzione dell'egemonia cinese ogni crisi è un'opportunità. Il Libano, in piena iperinflazione, vede il gigante asiatico come un possibile bancomat per salvare il Paese dal collasso. Ecco che il potere di Pechino non nasconde il suo interesse per la ricostruzione del porto di Beirut, distrutto nell'esplosione del 4 agosto scorso, che diventerebbe una sua base strategica per le rotte verso il Mediterraneo. Anche per la Siria in macerie di Bashar Al-Assad il Dragone potrebbe diventare un deus ex machina per ricostruire il Paese. Nel frattempo, in perfetto ecumenismo affaristico, è pure il principale partner commerciale dell'Iraq: nel 2018 gli scambi hanno superato i 30 miliardi di dollari. Ma i cinesi non regalano nulla, e c'è la preoccupazione che questi Paesi non riescano a ripagare i prestiti e cadano nella «trappola del debito». «La Via della seta è il programma di politica estera più ambizioso di Xi e il Medio Oriente è un importante hub geostrategico al suo interno» conferma a Panorama Jonathan Fulton, analista dell'Atlantic council di Washington. Ma se infrastrutture e ricostruzione sono il futuro, il petrolio resta il legame più forte. Oggi la Cina è il primo cliente dei sauditi e ha scavalcato l'America, acquistando più di 1 milione 800 mila barili al giorno. Nel frattempo ogni Stato del Consiglio di cooperazione del Golfo, a eccezione del Bahrein, ha firmato un partenariato con la Cina. Questi Paesi potrebbero voler rafforzare i loro legami con Pechino perché non si fidano della leadership americana che punta a riallacciare con il rivale regionale Iran.
«Oltre a importare idrocarburi, la Cina sta cercando però di avere un ruolo nelle energie rinnovabili, nel nucleare, nel digitale, nella finanza e nell'edilizia» puntualizza Fulton. Considera l'Iran un fornitore fondamentale di risorse energetiche. Ma non solo. Ha firmato con Teheran una bozza di accordo che prevede progetti per un valore di 400 miliardi di dollari. Per espandere la sua influenza la Cina non si preoccupa del rispetto dei diritti umani, appoggia persino gruppi armati. Ha promesso ai talebani investimenti una volta che gli Stati Uniti avranno completato il loro ritiro. Sull'altro versante i Paesi islamici non hanno speso una parola in difesa degli uiguri - popolo di etnia turca e religione islamica che vive nel Nord-ovest della Cina - repressi duramente nelle loro rivendicazioni. Anzi, in una serie di lettere all'Onu, Stati come Arabia Saudita, Egitto, Kuwait, Iraq ed Emirati hanno sorprendentemente elogiato la soppressione dell'islam nella regione dello Xinjiang come sforzi necessari di «antiterrorismo». Relazioni pericolose sul filo geo-strategico sono anche quelle con Israele e Turchia. Il commercio tra Pechino e Ankara è cresciuto negli ultimi anni, fino ad arrivare a poco più di 26 miliardi di dollari. Una società cinese ha acquistato il 48 per cento del Kumport Terminal per 940 milioni di dollari: situato sulla costa nord-occidentale del Mar di Marmara, è il terzo terminal container più grande della Turchia ed è un collegamento strategico con l'Europa. In Israele, invece, lo Shanghai International Port Group ha vinto un contratto di 25 anni per gestire il nuovo terminal del porto di Haifa. E gli investimenti cinesi nello Stato ebraico sono arrivati a 16 miliardi di dollari. Il progetto di punta è la costruzione della ferrovia Red-Med, 300 chilometri di alta velocità che collega Eilat sul Mar Rosso ad Ashdod sul Mediterraneo, che ridurrebbe la dipendenza di Pechino dal canale di Suez. Un punto controverso è la diffusione nello Stato ebraico della rete 5G. Si ritiene che possa creare furti o sabotaggi di dati. Emirati, Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein ed Egitto hanno tutti collaborato con Huawei, l'azienda in prima linea nei servizi 5G in Cina. A fronte a una così poderosa offensiva nella regione, Pechino farà fatica a mantenere la sua narrazione di potenza pacifica, «neutrale». Comincia a esibire muscoli militari accanto a quelli economici. Partecipa a missioni anti-pirateria nel Mar Arabico e nel Golfo di Aden. È stata determinante nel persuadere Teheran a firmare l'accordo nucleare nel 2015.
La prima base militare cinese è stata già costituita a Gibuti tre anni fa. Ma Pechino sta anche investendo in porti commerciali che potrebbero essere convertiti a uso tattico, per esempio quello di Gwadar in Pakistan e di Duqm in Oman. Sta pensando di stabilire una base militare a Port Sudan sul Mar Rosso e una struttura navale a Jiwani, sempre in Pakistan al confine con l'Iran. Pure la crisi del Covid ha offerto a Pechino un'arma di penetrazione, i vaccini: ne ha venduti alla Giordania, all'Egitto, agli Emirati, all'Iraq, al Bahrein, 50 milioni di dosi alla Turchia, e ha firmato un accordo con il Marocco per commerciarlo in Africa. La Cina ha anche esportato milioni di mascherine e respiratori. «Durante l'emergenza Covid si è affermata come un partner affidabile in Medio Oriente» conferma Fulton. Infine, ha fornito armi a diversi Paesi dell'area. La nuova Via della seta sta creando un sistema economico fuori dal controllo di Washington. Questa crescita di Pechino si può tradurre a breve in aumento del suo potere militare. «Il Medio Oriente è il cimitero delle grandi potenze» ha detto Li Shaoxian, ex vicepresidente del China Institutes of contemporary international relations. E proprio nella regione più problematica del mondo, il Dragone potrebbe scalzare l'America e diventare nuova potenza egemonica.
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