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La Stampa Rassegna Stampa
07.02.2021 Il ritorno dello Stato islamico
Analisi di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 07 febbraio 2021
Pagina: 16
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Attacchi ai soldati di Assad. L'Isis riemerge dalle montagne»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/02/2021, a pag.16 con il titolo "Attacchi ai soldati di Assad. L'Isis riemerge dalle montagne" il commento di Domenico Quirico.

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Domenico Quirico

Risultato immagini per isis

Forse in Siria è stata, di nuovo, oltrepassata una pericolosa soglia, e per la seconda volta non ce ne siamo accorti. Sono come gocce, una dopo l'altra, ogni giorno, aprono crepe, sottili, graciline, quasi invisibili. In quel reticolo però c'è un disegno molto vasto che ci sfugge perché al contrario di loro, i jihadisti, non lo guardiamo dall'alto. Il luogo, innanzitutto: non dice nulla se non ai militari dell'esercito di Bashar Assad e ai suoi alleati iraniani, ai piloti russi che devono bombardare. Sono il deserto e le montagne di Badia al Sham. Ogni giorno di questo aspro inverno del 2021, stagione astratta che non porta a nulla, soprattutto che non porta alla vittoria finale promessa al dittatore di Damasco dai suoi generali, diventa un rebus inestricabile. Già: che volete che ci sia a Badia? Enormi lastre di pietra chiara, l'aspro nitore di ossa bianche che si innalzano dalla piana desertica, e poi un enorme tappeto di terra bruna che si annulla in un orizzonte sbavato di sabbia e di polvere.

Risultato immagini per isis

Un margine, della Siria e del mondo. In tempi normali lo osservavi dall'autostrada che lega Homs a Deir ez-Zor e la valle dell'Eufrate e acceleravi per lasciarlo alle spalle. Non c'è nulla da vedere lì. Eppure: nel 2014 anche Raqqa, a Est, era una città anonima, un nome sulle carte. Poi un giorno emersero nell'incubo del terzo millennio le bandiere nere di Isis, i pick-up nuovi di fabbrica, la guerra mondiale dei fanatici. La descrivevano come una malattia orrenda che era necessario tenere sotto controllo e sradicare. Un'altra malattia ci ha distratti. Un errore. Cerchiamo tracce, manifeste, tutt'altro che stinte, ingiallite, prossime all'oblio. Perché a Badia sta rinascendo silenziosamente il Califfato, quello di Abu Mar il turkmeno, califfo ancor più impalpabile, sfuggente del predecessore Al Baghdadi. L'inizio All'inizio erano piccole incursioni, imboscate a mezzi militari di passaggio, assalti notturni a minuscole guarnigioni isolate nei villaggi o lungo la strada, solo commandos di pochi uomini che poi sparivano nei canyon e nelle grotte impenetrabili di Badia. Son passati due anni dalla caduta di Baghuz, ultimo frammento territoriale dello stato islamico. Suvvia: la guerra è vinta, pochi superstiti sfuggiti ai rastrellamenti e alla fuga cercano di restar vivi in quel lembo inospitale della Siria. Poi dall'autunno le gocce hanno iniziato a cadere più fitte, più grandi. I soldati uccisi che prima nessuno contava sono diventati decine. Troppi. Le operazioni dei jihadisti ora erano più ambiziose, con coordinazioni complesse e armi sofisticate. Una colonna della quarta divisione blindata, per esempio: in Siria sanno tutti cosa rappresenta, i pretoriani, la Guardia presidenziale, i fedelissimi del regime ben armati e addestrati di cui gli Assad hanno piena fiducia. Gli unici, con gli iraniani della brigata «Fatemiyun», con cui infatti operano fianco a fianco nelle situazioni più delicate. L'attacco a 30 chilometri appena da Deir ez-Zor. A prova di grande audacia e sicurezza nei propri mezzi. Un massacro con decine di morti tra i soldati che lo stesso regime ha dovuto ammettere a fine anno proclamando il lutto nazionale. I rinforzi, la cosiddetta quinta divisione, quella riarmata e addestrata dai russi, è stata inviata nella zona, segno di grande allarme. Perché è stata ritirata dall'attacco, difficile, ad Idlib, bastione di tutti i fondamentalisti, il tassello che manca ad Assad per riconquistare tutta la Siria. Ma non è bastato. Altri convogli sono stati distrutti, è stato ucciso anche un generale iraniano; e l'area di azione delle forze dello stato islamico si è allargata verso Nordest e verso Ovest. Ripulire il terreno. E poi il secondo tassello: ripulire il terreno, per insediarsi. Come nel 2013.

I jihadisti eliminano i notabili, i sindaci, i funzionari. Soprattutto nelle tribù che si sono alleate a Damasco. Segnale chiaro ai sunniti: siamo ritornati, affidatevi a noi che vi proteggeremo. Non cade nel silenzio: le popolazioni non vogliono le milizie sciite iraniane e i curdi. E poi la vecchia Siria della corruttela e dei traffici è tornata: i generali si dedicano al lucroso contrabbando tra le due rive dell'Eufrate. La gente in miseria cova rancore. Le scuciture si allargano. II fronte africano Ma non c'è solo la Siria. L'Isis è rimasto sempre fedele alla sua strategia, premere sui margini per poi afferrare l'obiettivo principale. E i margini per loro sono distaccati a quattro punti cardinali, grandi come il mondo. Il bilancio della guerra civile planetaria, l'ideologia islamista opposta frontalmente a quella occidentale con la stessa pretesa di un messaggio universale, due anni dopo la «vittoria» che ha sanato il mondo, è per loro esaltante. L'odio, un odio che non conosce né tiepidezza né compromesso, funziona sempre. Il cyber-califfato, la rete moderna che sorregge traffici, finanziamenti e reclutamento, produce utili, non è stata affatto smantellata. E poi ci sono le vittorie militari, le terre conquistate. Noi scomponiamo sempre il mosaico unitario dei fronti aperti dagli islamisti, le mille sigle, le diecimila ragioni delle guerre «locali»'. Loro sommano, addizionano, combinano. Si definiscono attraverso la lotta che conducono. L'Africa Australe, per esempio. La provincia di Cabo Delgado in Mozambico, dovremo imparare questo nome. Islam, criminalità, la rabbia di una popolazione che vive miseria e trascuratezza del potere centrale, è la formula alchemica perfetta. E la narrazione della conquista. La Storia è davvero una invenzione a cui la realtà porta i suoi materiali. Il nome a questa terra lo ha dato un musulmano, Mussa Bin Bique, prima che arrivassero nel Quattrocento Vasco da Gama e i portoghesi. «Al Naba», la comunicazione del califfato, dedica ampio spazio all'Africa centrale, nuovo santuario del jihad che difende le comunità musulmane «oppresse dalla cultura cristiana». Le bandiere nere sono ormai sulle sponde dei grandi laghi, ribattezzata «provincia dell'Africa centrale», crocevia delle guerre eterne per rame, uranio, coltan, dei feroci conflitti tribali. Il «Gruppo armato delle forze democratiche alleate», nato in Uganda e ora alleatosi al Califfato, colpisce nel Kivu, in Congo. Queste terre ricche di minerali e politicamente fragili saranno l'eldorado del terrorismo mondiale. L'africanizzazione del jihad intanto si dirige su nuove terre. Il capo dell'intelligence francese Bernard Emoé ha appena lanciato l'allarme sulla penetrazione dei gruppi islamisti verso Costa d'Avorio e Benin. Già presenti in Togo, mentre il Ghana ha partorito molte reclute per Isis. E poi c'è il Sahel. Ora anche a Parigi si mormora la parola fallimento per le operazioni militari avviate da Hollande e Macron nel «Sahelistan», nel frattempo divenuto «La terra del caos». Le cifre di eliminazioni di miliziani in Mali e Niger sono spesso gonfiate dalla propaganda per frenare i dubbi che crescono, in questi lumi di luna, sui costi delle operazioni di polizia coloniale. I danni collaterali con la morte di civili si moltiplicano, come le perdite francesi. Una guerra con poca «gloire» per la boria politico-militare, che ha soltanto fatto crescere l'avversione delle popolazioni peri francesi. Si moltiplicano in questi Paesi le richieste di trattare direttamente con i jihadisti secondo il modello talebano. La Sicurezza è diventata per la consorteria dei presidenti una azienda che riempie le tasche, le loro. Le plebi derelitte si volgono al jihadismo come unica rivolta possibile contro un sistema che appare loro disumano. Si dovrà riflettere e fissare punti fermi prima di abboccare, senza esigere spiegazioni inceppanti, alla balbettante guerra coloniale francese affiancandola con soldati italiani. Meglio non condividere le sconfitte.

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