I dimenticati del conflitto
Analisi di Michelle Mazel
(Traduzione di Yehudit Weisz)
A destra: lavoratori arabi palestinesi disoccupati
Chi sono i dimenticati? Non certo gli arabi israeliani, bensì gli arabi palestinesi sudditi del dittatore Abu Mazen, come sottolinea Michelle Mazel.
Sono le pedine invisibili di un gioco che le divora. Cittadini di un'entità che cerca di essere un Paese ma questo non si prende cura di loro, dipendenti da un altro Paese che loro non vogliono riconoscere. Secondo dati ufficiali probabilmente sottostimati, prima della pandemia, ogni giorno, 80.000 lavoratori palestinesi venivano a lavorare in Israele. La maggior parte nell'edilizia, nell'industria o nell'agricoltura, raramente in lavori qualificati, ma il loro salario sosteneva le famiglie e talvolta interi villaggi. Secondo un’esperta palestinese, questi lavoratori contribuivano con più di un miliardo di shekel al mese all'economia del Paese. Senza dubbio avrebbero preferito lavorare più vicino a casa loro, ma il mercato è molto limitato e, secondo i dati ufficiali, la disoccupazione sfiora il 20% .
La barriera protettiva costruita da Israele per ridurre le infiltrazioni terroristiche dopo gli anni della Seconda Intifada: un successo
Solo che le autorità di Ramallah non stanno facendo il minimo sforzo per sviluppare quello che chiamano lo Stato di Palestina. L'agricoltura rimane la principale fonte di lavoro. Significa che non ci sono altri sbocchi per i giovani che ogni anno entrano nel mercato del lavoro. L'opzione israeliana non ha solo delle attrattive. Certo, i salari lì sono molto più alti, ma gli ostacoli non mancano. In primo luogo, c'è il condizionamento a cui sono soggetti i piccoli palestinesi fin dalla più tenera infanzia, la demonizzazione degli ebrei e degli israeliani. In seguito ci sono i contatti occasionali con i soldati israeliani. Ultimo, ma non meno importante, c'è la famosa barriera di sicurezza, a volte chiamata “muro dell'apartheid”, che separa Israele dai territori dell'Autorità Palestinese, secondo le linee del cessate il fuoco del 1967. Costruita, ce lo dimentichiamo troppo spesso, dopo i sanguinosi attentati della Seconda Intifada, che hanno causato la morte di 800 civili israeliani, è materializzata in alcune zone da un complesso sistema di recinzione e in altre da un muro alto otto metri. Per attraversarla si deve passare attraverso dei posti di blocco dell'esercito. Un passaggio non sempre agevole visti i controlli praticati, resi purtroppo necessari dai numerosi tentativi di attacchi terroristici in questi punti sensibili. L'attesa è lunga sia al mattino che al ritorno. Alcuni lavoratori hanno la fortuna di essere ospitati dal loro datore di lavoro e di tornare a casa solo una volta al mese. Altri, con o senza permesso di ingresso, scelgono di attraversare la barriera illegalmente. La crisi del Covid ha confuso le acque. Sono state imposte restrizioni ai movimenti sia dai palestinesi che dagli israeliani.
Abu Mazen
L'Autorità Palestinese proibisce ai suoi cittadini di andare a lavorare in Israele e questo Paese ha appena deciso di chiudere tutti i varchi. Una chiusura molto illusoria. Dei video girati da dei giornalisti israeliani mettono in luce un fenomeno straordinario. Ogni notte, quando spunta l'alba, decine di migliaia di lavoratori tentano di attraversare la barriera illegalmente. Sono 40.000, 50.000? Le recinzioni vengono tranciate e una lunga fila di palestinesi si precipitano nella breccia, pronti a tornare indietro se si presenta una pattuglia. Sono senza mascherina, non hanno mai sentito parlare di norme di prevenzione o di vaccini. Dicono di non aver paura del virus o dei soldati, aggiungendo a bassa voce che non hanno altra scelta se non vogliono che le loro famiglie muoiano di fame. Dall'altro lato della recinzione, decine di taxi e minibus sono pronti per portarli ai loro luoghi di lavoro. L'Israele ufficiale tace. Di fronte al doppio pericolo di una possibile infiltrazione terroristica e della contaminazione da virus, c'è il doppio imperativo di far entrare una manodopera indispensabile e di rispondere a un disagio umano che non lascia nessuno indifferente.
Michelle Mazel scrittrice israeliana nata in Francia. Ha vissuto otto anni al Cairo quando il marito era Ambasciatore d’Israele in Egitto. Profonda conoscitrice del Medio Oriente, ha scritto “La Prostituée de Jericho”, “Le Kabyle de Jérusalem” non ancora tradotti in italiano. E' in uscita il nuovo volume della trilogia/spionaggio: “Le Cheikh de Hébron".