Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 01/02/2021 a pag.III, con il titolo "I territori perduti di Francia" l'intervista a Georges Bensoussan tratta da Valeurs Actuelles.
Georges Bensoussan
Nel 2002, usciva "Les Territoires perdus de la République", che raccoglieva le testimonianze di professori e presidi sulla disgregazione delle relazioni sociali a scuola, sulla radicalizzazione e sullo sviluppo di un nuovo antisemitismo. Con una postfazione di Georges Bensoussan, l'opera fu boicottata prima di tornare sotto i riflettori dodici anni dopo, in ragione dei fatti di cronaca. Il suo iniziatore, lo storico francese specialista della storia europea del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, ha prolungato il suo studio del fenomeno con la pubblicazione, nel 2017, di "Une France soumise". Lanciatore di allarmi non sufficientemente ascoltato, racconta a Valeurs actuelles la sua esperienza per capire meglio i sussulti che rendono fragile la nostra società, e affinché il 2021 non assomigli al 2020.
La copertina
Valeurs actuelles - Nell'ottobre del 2020, un professore è stato decapitato per aver mostrato le caricature di Maometto. Lei aveva lanciato l'allarme diciotto anni fa sulla violenza, sull'antisemitismo e sull'islamismo che imperversavano nelle banlieue. Tre anni fa, il suo libro "Une France soumise" insisteva nuovamente sul settarisno che colpisce numerosi campi. Si è sentito ascoltato? E se la risposta è no, come spiega questa sordità? Georges Bensoussan - Pubblicato diciotto anni fa, nel 2002, "Les Territoires perdus de la République" non ha avuto grande eco, in contrasto con il successo che avrà il suo titolo, entrato quasi a far parte del linguaggio comune. Nel complesso, il libro è stato ignorato, con l'eccezione considerevole di Alain Finkielkraut, che ne parla subito dopo l'uscita, e di Eric Conan, giornalista dell'Express, che pubblica ampi estratti del libro e consacra un reportage al tema trattato. Per il resto ci sono stati pochi echi qua e là. In privato, si dice che è un accumulo di dicerie, un libro né scientifico né rigoroso, o che manifesta un razzismo disinibito e "fa il gioco dell'estrema destra". Alcuni dicono entrambe le cose.
Cos'è che nel 2002 vi ha colpito maggiormente durante l'inchiesta? Ciò che ci ha colpito? Il clima di terrore che spiega il motivo per cui soltanto tre autori dei contributi (su sette) hanno firmato utilizzando la loro vera identità. E' accaduta la stessa cosa nel 2004, in occasione della seconda edizione ampliata. Questo clima di terrore spiega l'anonimato anche nel nostro secondo libro pubblicato quindici anni dopo, "Une France soumise, les voix du refus" (Albin Michel, 2017). Questi due libri sono stati attaccati attraverso la stessa prospettiva disonesta che consiste nel non accordare alcun credito a opere il cui tema implica che le fonti non possano essere rese pubbliche. Fatte le dovute proporzioni, è possibile immaginare oggi in Francia degli intellettuali ben protetti gettare alle ortiche un'inchiesta sulle pratiche mafiose col pretesto che non rivelerebbe l'identità dei principali testimoni dell'accusa? Sarebbe grottesco.
Dai tempi in cui ha fatto le sue prime constatazioni ha visto un cambiamento? La situazione è cambiata? Si. Si è aggravata. Una parte non trascurabile della popolazione vuole divorziare dalle leggi della République e dagli usi e costumi della civiltà francese. Perché evocare il termine "civiltà"? Perché il mantra della "laicità" nasconde dei problemi gravi che sono in relazione con essa: per esempio, per quanto riguarda l'uguaglianza tra uomini e donne, la questione del velo, paradossalmente, è soltanto la parte più visibile. Una parte della gioventù francese di origine straniera da due o tre generazioni, e che considera la legge islamica superiore alla legge francese, sembra aver perso il treno dell'assimilazione. Tuttavia, questa gioventù è francese e integrata. Detto questo, possiamo ritenerla assimilata? E' qui il punto dolente, perché un'integrazione sconnessa dall'assimilazione pub far nascere un altro modello di civiltà. Ciò vale soprattutto per alcune immigrazioni il cui flusso di arrivi non si arresta, alimentando il mantenimento della cultura d'origine propizio alla reislamizzazione così come all'endogamia. Tutti ostacoli all'assimilazione. Ciò che è cambiato positivamente, è una presa di coscienza più ampia di queste realtà, meno a livello delle classi medie e delle classi popolari (sono coscienti di queste realtà da molto tempo) che a livello di una parte delle élite (la parola non ha alcuna connotazione negativa), e in particolare dei governanti beninformati sullo stato reale della società. Ma questa presa di coscienza è arrivata con un ritardo considerevole. Una parte delle élite francesi mi sembra disconnessa dalla vita della maggioranza della popolazione su tutto il territorio. Ma soprattutto una parte del mondo intellettuale e mediatico si rifiuta di evocare l'attuale disgregazione e le sue cause.
Cosa intende di preciso? Evocare la pregnanza di un "islamogoscismo" all'università non è uno "scivolone" (e rispetto a quale norma poi?), ma una constatazione dell'esistenza di una minoranza, mediaticamente potente, che ha il microfono aperto in alcuni grandi media dove regna il discorso monocorde dell'autosegregazione borghese ammantato di "progressismo". Progressismo? Basta vedere l'ostilità che questi `progressisti' hanno mostrato nei confronti del movimento dei "gilet gialli" fin dagli inizi. E la loro adozione della parola "migranti" come se fosse un'evidenza, quando invece dovevano essere utilizzate le parole "rifugiati" o "clandestini" perché appartengono al registro del politico, mentre la parola "migrante" appartiene al registro dell'umanitario, che implica un dovere di accoglienza e suggerisce, in sordina, un diritto di credito verso la Francia, zavorrata da un tale senso di colpa che potrebbe redimersi soltanto con l'apertura delle frontiere ai rifugiati di tutto il mondo, i quali, legittimamente, sognano una vita migliore. Capire implica di smettere di deplorare e moltiplicare le imprecazioni moralistiche. Al contrario di avversari la cui negazione della realtà è diventato un habitus e il cui argomento principale ruota attorno alle parole "indignato", "immorale" e "vergognoso". Senza dimenticare una cultura del disprezzo la cui strategia semantica consiste nel farvi passare per un cretino ("semplicismo", "rifiuto della complessità", "visione caricaturale"), impedendo in questo modo qualsiasi dibattito approfondito: non si dibatte con un cretino, per giunta razzista, gli si chiede semplicemente di tacere. Capire presuppone di analizzare socialmente quel particolare ceto intellettuale che si ritrova nelle battaglie dell"`islamogoscismo". Come e perché questi figli cresciuti a pane e Lumi aderiscono a una causa così retrograda? Come interpretare il fatto che il risentimento sociale e intellettuale di un gran numero di intellettuali 'proletarizzati' si incontri con il sentimento di umiliazione (e con la sete di vendetta) di un certo numero di musulmani? E come si spiega il fascino di alcuni intellettuali per la violenza e il potere totalitario?
Sempre più voci denunciano anche il ruolo dell'antirazzismo nel rafforzamento dell'islamismo... Bisognerebbe parlare più di antirazzismo deviato che di antirazzismo. L'antirazzismo è una battaglia legittima, ma allo stesso tempo è dilapidato da quelli che lo strumentalizzano. Questa deriva mi fa pensare, su questo punto e esclusivamente su questo, alla battaglia del pacifismo tra le due guerre. Una battaglia legittima, ma progressivamente deviata verso il disfattismo, lo spirito di Monaco, e per un certo numero di pacifisti addirittura verso il collaborazionismo con la Germania nazista. La deriva di un certo antirazzismo vede una battaglia essenziale devitalizzata e privata di senso dal risentimento sociale e dalla mancanza di intelligenza politica. Così non è senza ironia che si osserva un "islamogoscismo" convalidare le norme etnorazziali mediante il concetto di "razzizzato" e la tenuta di riunioni "vietate ai bianchi". Ecco come reintrodurre il razzismo sostenendo di combatterlo.
Nell'assassinio di Samuel Paty, si è colpiti dal ruolo che hanno avuto alcuni studenti, così come dal fatto che il professore avesse avvertito la sua gerarchia sulle minacce che subiva e sul suo senso di smarrimento, invano. Nelle sue inchieste, ha avuto la stessa sensazione di abbandono degli insegnanti, degli infermieri e degli altri da parte della loro gerarchia? Come si spiega? La solitudine di Samuel Paty è l'immagine di ciò che vive la maggioranza degli insegnanti di questo paese. E' la macchina dell'Istruzione che bisogna interrogare quando si tratta per lei di non scontentare i "genitori degli studenti". Di mostrare che si "ha il controllo" del proprio istituto quando c'è paura, forse, soprattutto per la propria carriera, per il proprio avanzamento e per la propria reputazione... Quando è questione di piccole vigliaccherie congiunte che generano le "strane disfatte" del domani. Come rapportarsi a questo clima senza cadere nel moralismo? Perché questo paese dalla lunga tradizione rivoluzionaria si è impantanato da quasi un secolo in questa "vigliaccheria"? La disfatta del 1940 resta un impensato storico centrale. Ha frantumato l'immagine che questo popolo aveva di sé, a maggior ragione quando l'occupazione è stata vissuta dalla maggioranza nell'attendismo, nel ripiegamento e nella passività. Come pub questo traumatismo storico e psichico non aver avuto effetti a lungo termine? Non scriviamo la nostra storia su una pagina libera da qualsiasi ancoraggio. "La nostra storia non è il nostro codice", dichiarava il costituente Rabaut Saint-Étienne. Aveva ragione. Semplicemente avrebbe dovuto aggiungere che è anche il nostro codice.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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