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Italia Oggi Rassegna Stampa
27.01.2021 La Shoah al cinema
Commento di Diego Gabutti

Testata: Italia Oggi
Data: 27 gennaio 2021
Pagina: 11
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «Fuga per la vittoria, film ambiguo»
Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi 27/01/2021, a pag.11 con il titolo "Fuga per la vittoria, film ambiguo", il commento di Diego Gabutti, tratto da Il grande Sly di Diego Gabutti edito da Milieu 2012, pagg. 176, 15,90 euro

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Diego Gabutti

Il grande Sly: un libro su Sylvester Stallone, eroe proletario
La copertina (Milieu ed.)

A tutto c'è un limite, anche alle allegre cronache di guerra, e pertanto il cinema, da Holocaust in poi, la smette di raccontare i campi nazisti come centri benessere e luoghi di villeggiatura. Dicono che Hollywood non impari mai, ma stavolta la impara. Olocausto (Holocaust, Marvin J. Chomsky) è una miniserie televisiva del 1978 che rende conto della Shoah quando al cinema e in tivù se ne parla poco e mal volentieri. Non che s'ignori lo sterminio, o che addirittura lo si «neghi» (all'insegna di: tutte balle, mai avvenuto, sono favole sioniste) come fanno i negazionisti indemoniati di destra e di sinistra, tuttora attivissimi, con patetica ostinazione. No, la Shoah c'è stata; dire Auschwitz è dire il lato oscuro non del solo Novecento ma della Ragione e della condizione umana; tutti conoscono il nome di Simon Wiesenthal, «cacciatore di nazisti»; a scuola si legge Primo Levi (soltanto un populista italiano può confondere Auschwitz con Austerlitz e farla franca). Se si parla poco di Shoah o non se ne parla affatto è per un'altra ragione — è per il brivido che fa correre lungo la schiena dei civilizzati. E perché tutti quei morti (milioni e milioni e milioni di morti) mettono paura. Si può tollerare un film horror perché tanto si sa che lì è tutto finto: il trucco degli zombie, il sabba delle streghe, i cadaveri macellati, i canini da vampiro transilvano. Si sospende l'incredulità, ma ben sapendo d'averla sospesa e così, mentre Dario Argento o George Romero sono al lavoro, si rimane in realtà perfettamente increduli, e non si smette di pescare pop corn caramellati da qualche vaschetta di cartone. Altra cosa, però, è quando l'orrore è reale, e quindi c'è poco da sospendere.

Film sulla Giornata della Memoria recenti sulla Shoah e Olocausto

Di questo parla Olocausto, quando mette in scena la Shoah; non degli assassinati, la cui sorte nessuno ignora, ma dello spavento che la macchina della Shoah ha generato, dell'ombra che la Shoah proietta sul mondo. A sbigottire, nella miniserie, non è il suo contenuto, perfettamente noto, ma il fatto che se ne parli, d'un tratto, senza dare segni di panico. E il cinema? Be', a Hollywood la guerra tira, ed è infatti tutto un prosperare di battaglie campali, di convogli verso l'ignoto, di colonnelli e generali, di tigri del mare, di tempeste sulla Cina, d'autocolonne rosse, di sporche dozzine, di signore Miniver, di cacciatorpediniere maledette, di scuole di spie. Sono film drammatici, che per quanto spettacolari e orientati sul divismo (si pensi al Giorno più lungo, 1962, diretto da più registi di quanti ne servano di solito e interpretato da più divi di quanti normalmente se ne contino) non prendono la guerra sottogamba, tutt'altro. Ma ci sono angoli bui, tra cui appunto i campi di sterminio, che i riflettori evitano d'illuminare, le sceneggiature di raccontare e le cineprese di filmare. Non di meno, i film ambientati nei campi nazisti sono un sottogenere del cinema di guerra. Raramente, però, si tratta di campi di sterminio, o anche soltanto di lager veri, anche se non mancano i film che raccontano brutalmente i campi per quel che sono (o almeno quasi per quel che sono). Per esempio, L'ultima tappa (film polacco del 1948, regia di Wanda Jakubowska, pellicola introvabile, nonché la prima a essere ambientata ad Auschwitz). Per esempio Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo. Per esempio La settima croce (1944) di Fred Zinnemann. In genere, però, i lager dei film sono lager d'acquadolce, decorticati. Non ci finiscono gli ebrei, né gli zingari o gli oppositori politici, ma i prigionieri di guerra alleati, spiritosi, sempre allegri, sfaccendati e bene in carne che poltriscono nelle cuccette, consumano tavolette di cioccolata fornite dalla Croce Rossa e architettano piani di fuga. Oppure, come Michael Caine in Fuga per la vittoria, John Huston, 1981, dove recita nella parte del Capitano John Colby, ex goleador della nazionale inglese di calcio, calciatori alleati prigionieri sfidano a singolar pallone la squadra nazista.

Tra i giocatori democratici, insieme a Edson Arantes do Nascimento detto Pelé e ad altre leggende del calcio internazionale, spunta anche Sylvester Stallone. Reduce da Rocky II, film del 1979, e tre anni dopo FI.S.T. e Taverna Paradiso, due mezzi buchi nell'acqua, Sly si cala con espressione fin troppo impassibile (tra l'ictus ,dice qualcuno, e Buster Keaton) nella parte d'un prigioniero yankee, il Capitano Hatch, re della fuga e provetto portiere. Come nel Ponte sul fiume Kwai di David Lean, dove Alec Guinnes prendeva troppo sul serio (fino a tracimare nel collaborazionismo) la costruzione d'un ponte voluto dai giapponesi, nel film di Huston la partita di calcio prende un po' la mano ai giocatori, escluso Sly, che pensa solo a scappare. Come nella Grande fuga di Sturges, dove Steve McQueen è un lupo solitario che rinuncia a fuggire da solo per solidarietà con i compagni di lager, in Fuga per la vittoria Sly è lo yankee generoso che torna sui suoi passi, dopo essere scappato, per organizzare la fuga dei compagni di prigionia. Tra lui e Steve McQueen c'è una bella differenza, intendiamoci. Mentre McQueen è brillante e simpatico, un eroe spericolato e pericoloso insieme, Sly ha l'aria d'un bamboccione, per di più sempre imbronciato. Ma dev'essere responsabilità più di Huston che sua, visto che anche Michael Caine, attore di ben altra levatura, qui appare poco convinto e professionalmente sottotono, e i soli che nel film sembrano divertirsi davvero sono gli autentici giocatori di calcio, a cominciare da Pelé.

Fuga per la vittoria ha tutti i difetti del classico film finto-concentrazionario (cioè l'idea che il lager hitleriano sia un mezzo villaggio turistico gestito da SS indulgenti e gioviali kapò) e nessuna delle sue virtù: il ritmo da thriller, i tempi da commedia, il clima storicamente dadaista ma incalzante e festoso. È stato Stalag 17, un film di Billy Wilder, a dare l'imprinting, nel 1953, all'intero sottogenere. Ideologicamente inquietante, e a sua volta del tutto inattendibile, Stalag 17 è interpretato da William Holden, nella parte del prigioniero americano cinico e trafficone, e da un bravissimo Otto Preminger (il grande regista, che indulge di tanto in tanto a qualche cammeo nei film degli amici, recita per Billy Wilder nella parte del Colonnello von Scherbach). Da Stalag 17 in poi, fino a Fuga per la vittoria, sono film ambigui, almeno a giudicarli col senno di poi. Holocaust, nel 1978, cambia tutto: dopo di allora le banalizzazioni non saranno più tollerate. Si stende un pietoso velo sulle grandi fughe, sui ponti da costruire nella remota Birmania, su Stallone e su Pele. Escono film come Schindler's List (Steven Spielberg, 1993) e The Pianist (Roman Polansky, 2002). Esce, purtroppo, anche La vita è bella (Roberto Benigni, 1997): Auschwitz vista attraverso gli occhi d'un intrattenitore berlingueriano, filosofo e dantista da Festa dell'Unità, nonché Mugicco di Televacca, un programma «sinceramente democratico' (eppure geniale e memorabile) di Rai2 del 1977.

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