Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/01/2021, a pag. 31, il commento di Sharon Nizza dal titolo "Nella fossa del Novecento".
Sharon Nizza
Natan Sharansky
"La Shoah non è iniziata né finita ad Auschwitz. Per mantenere viva la memoria, bisogna conoscere la storia». Natan Sharansky, chiamato a dirigere il comitato supervisore del Memoriale della Shoah di Babij Jar, è sconcertato dalle statistiche che rivelano quanta poca conoscenza vi sia di ciò che avvenne nella più grande fossa comune d’Europa. Qui si svolse il primo, tragico capitolo delle operazioni delle Einsatzgruppe che falciarono le vite di un milione e mezzo di ebrei nell’Est Europa. In soli due giorni, 29 e 30 settembre 1941, i nazisti e i collaborazionisti ucraini fucilarono 33.771 ebrei in questo enorme fossato alle porte di Kiev. Nei tre anni successivi, a Babij Jar vennero uccise altre 70mila persone, ebrei, oppositori politici, zingari e disabili. Sharansky ha dedicato la vita all’affermazione dei diritti umani e alla lotta contro l’antisemitismo. Portavoce di Andrej Sacharov negli anni ’70, poi leader dei refusenik, quegli ebrei che cercavano di fuggire dall’Unione Sovietica che annichiliva l’identità ebraica in ogni sua declinazione, tanto che «per anni non conoscevo nulla di ebraismo, ad eccezione dell’antisemitismo». Recluso per 9 anni in un gulag, nel 1986, grazie alle pressioni del mondo – tra cui in Italia dei radicali di Pannella – riuscì a emigrare in Israele, dove è giunto il riscatto: più volte ministro, direttore dell’Agenzia Ebraica, insignito negli Usa della Medaglia presidenziale della libertà. «Sono cresciuto a un miglio da questa enorme fossa comune, di cui non sapevamo nulla. Per noi era un campo da gioco» racconta Sharansky. Il codice del silenzio venne incrinato per la prima volta nel 1961 dal poeta Yevgeny Yevtushenko. «Uno dei miei primi arresti avvenne quando organizzai una commemorazione a Babij Jar. Per me questo luogo è l’emblema della cancellazione sovietica della memoria della Shoah e di qualsiasi segno identitario ebraico».
Una strage delle Einsatzgruppen in Europa orientale
L’inaugurazione del memoriale avverrà nel 2026, ma avete già avviato programmi di ricerca. «Sì, solo a Kiev ci sono archivi interi che non erano mai stati consultati. Stiamo identificando migliaia di vittime rimaste ancora senza nome».
La trasmissione della memoria è messa a rischio dalla scomparsa dei testimoni diretti della Shoah? «Nella Hagadà, il racconto che noi ebrei ripetiamo ogni anno a Pesach (la Pasqua ebraica, ndr ), è scritto che il ricordo dell’uscita dall’Egitto va trasmesso “di generazione in generazione, come se tu stesso ne fossi uscito”: l’impegno personale e la trasmissione famigliare sono parte integrante della conservazione della memoria e il fondamento dell’identità ebraica, come ricordava spesso Elie Wiesel. Ma perché serva da antidoto all’odio, è essenziale investire nell’istruzione dei giovani, tradurre la tragedia della Shoah nel linguaggio delle nuove generazioni, utilizzando anche i mezzi più innovativi che la tecnologia ci offre. È una delle sfide principali che ci poniamo con il nuovo memoriale».
Elie Wiesel è stato fondamentale nel rivendicare i diritti degli ebrei sovietici. «Nel 1966, Wiesel pubblicò Gli ebrei del silenzio , in cui chiedeva: “Come possiamo permettere un altro annientamento del popolo ebraico in questa generazione?”. Grazie a lui la nostra battaglia è arrivata al mondo libero, altrimenti non ce l’avremmo fatta. Negli anni di isolamento nel gulag dentro di me sapevo, grazie al monito di Wiesel, di non essere solo».
La Giornata della Memoria è iniziata in Italia nel 2000, poi adottata dall’Onu nel 2005. Che bilancio se ne può trarre? «L’internazionalizzazione della memoria ha portato molte cerimonie ufficiali e momenti di approfondimento, e questo è di certo positivo. Ma non va trascurata la profonda connessione tra la memoria della Shoah e la lotta all’antisemitismo in ogni sua forma. Oggi siamo testimoni di una recrudescenza di episodi antisemiti nel mondo, a sinistra come a destra. Bisogna identificare la connessione tra la delegittimazione degli ebrei e quella dello Stato d’Israele: sono due facce della stessa medaglia. La critica a Israele è legittima, fino a che non utilizza le “tre D” dell’antisemitismo classico: demonizzazione, delegittimazione, doppio standard. La definizione dell’antisemitismo dell’IHRA affronta esattamente questi aspetti: è importante che quanti più Paesi la adottino, ed è significativo che, in Bahrein e Marocco, l’antisionismo di recente sia stato riconosciuto come una forma di antisemitismo. Per sconfiggere l’antisemitismo è necessario capire che è un fenomeno fluido, che ha assunto diverse forme nel corso della storia».
C’è una differenza tra la trasmissione della memoria in Israele e nel mondo? «La connessione tra memoria e lotta all’antisemitismo è una delle fondamenta su cui si basa questo Stato. Qui il giorno del ricordo viene osservato ad aprile, nella ricorrenza della rivolta del ghetto di Varsavia. Quando ero ministro, ho proposto che il 27 gennaio diventasse un giorno dedicato alle nuove forme di antisemitismo. C’è stato un momento nella storia, alla vigilia della seconda guerra mondiale, in cui il mondo aveva chiuso le porte agli ebrei. Il compito d’Israele è che ciò che non accada mai più».
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