Riprendiamo dalla STAMPA - Torino di oggi, 21/01/2021, a pag.51, con il titolo 'Andai in gita, la sera scoprii che la scuola ci era negata' l'intervista di Maria Teresa Martinengo.
Maria Teresa Martinengo
Aldo Liscia
L' ingegner Aldo Liscia, livornese di origine e torinese di adozione, il 3 settembre 1938 era un ragazzo di 17 anni che stava trascorrendo l'ultimo scorcio di vacanze prima di iniziare il quinto annodi liceo scientifico. Quella giornata, in cui avrebbe scoperto che la sua vita sarebbe radicalmente cambiata, la racconta sempre ai ragazzi che incontra nelle tante scuole dove viene invitato a portare la sua testimonianza del fascismo e delle persecuzioni degli ebrei. Sabato questo signore elegante e gentile, cavaliere della Repubblica per meriti scientifici nell'ambito della ricerca sulla sicurezza delle centrali nucleari (ha lavorato al Cnen poi all'Enea, a Saluggia), compirà cento anni. I figli Roberto e Daniele, parenti e amici si riuniranno su Zoom per un grande festeggiamento.
Ingegnere, che cosa accadde quel 3 settembre? «Ero andato a fare una gita in bicicletta con i compagni di scuola. Vivevamo ad Antignano, vicino a Livorno, in una bella villa sul mare che aveva fatto costruire mio padre. Mio padre era chirurgo, la nostra famiglia era agiata e io ero un ragazzo spensierato. Quella sera, quando arrivai a casa, mio padre mi disse che non sarei più potuto andare a scuola aLivorno a causa delle leggi razziali. Da tempo sul Telegrafo, il giornale della città, comparivano notizie che preoccupavano mio padre, ma io non mi rendevo conto del pericolo».
Il libro in cui Aldo Liscia ha raccontato la storia della propria famiglia (Belforte ed.)
Il re, che era in vacanza poco lontano da voi, nella tenuta di San Rossore a Pisa, le avrebbe firmate il 5 settembre. Lei come reagì? «Dissi: allora vado a Firenze dalla nonna, prendo la maturità a Firenze».
E suo padre? «Si irritò. Batté la mano sul tavolo. "Ma non capisci - mi disse - leggi". E mi tese il Telegrafo, dove a caratteri cubitali era scritto "Gli ebrei fuori dalla scuola fascista". Mi chiusi in camera, non cenai. Mi misi a sfogliare i libri di quinta».
Cosa accadde nei giorni seguenti? «Proposi ai miei di trasferirci in America o in Gran Bretagna, mi risposero che non ne avevamo la possibilità, che bisognava provvedere ai miei fratelli che dovevano finire gli studi di Medicina. Questo era consentito. Così si stabilì che io e mia madre saremmo andati in Francia, Paese che rimase libero fino al giugno 1940. Nei primi giorni di scuola andai davanti al liceo a salutare i miei compagni. Incontrai il vice preside Radaelli, un ottimo insegnante: era dispiaciuto per quanto mi stava capitando».
Quindi emigrate in Francia. «Nel novembre '38 io e mia madre ci trasferiamo a Nizza. Mia madre apre una pensione kasher con i coniugi Momigliano di Caraglio, i genitori di Arnaldo, il famoso storico dell'antichità. In quella pensione ho conosciuto i coniugi Fubini, torinesi, con la figlia Marisa, di 13 anni, che diventerà mia moglie, e il figlio Guido, futuro avvocato. Finito il liceo, nel '41, grazie al padre di un amico, funzionario del governo di Vichy ma non filonazista, riuscii a procurarmi i documenti per andare in Svizzera. Mi fermarono alla frontiera, poi mi lasciarono andare. Molti ebrei più sfortunati non passarono, furono arrestati e deportati. In Svizzera mi rivolsi a un centro di assistenza per rifugiati. Con la loro piccola paga e dando lezioni, potei iscrivermi a Ingegneria e laurearmi, nel '46. Mi sono poi laureato anche al Politecnico di Torino».
E i suoi famigliari? «Mentre noi eravamo in Francia, mio padre dovette combattere con Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, che voleva comperare villa Giulia, che mio padre non aveva nessuna intenzione di vendere. Dopo lunghe trattative si accordarono per un affitto. Ma nel '41, morto Costanzo, Edda Mussolini e il marito tornarono alla carica con minacce. Mio padre dovette cedere. Fu mia madre, a guerra finita, a condurre la battaglia con la vedova Ciano per riaverla. Mia madre, quando io partii per la Svizzera, tornò in Italia. Con mio padre si nascosero a Firenze, nella casa di un amico di famiglia che veniva in vacanza vicino a casa nostra: li nascose a rischio della vita, benché fascista e ufficiale della Repubblica Sociale. Uno dei miei fratelli era nascosto nell'ospedale psichiatrico di Livorno, pronto a fare il matto in caso di pericolo, l'altro nel laboratorio di analisi del fratello di Giovanni Spadolini. Io scoprii che erano tutti salvi solo alla fine della guerra».
Lei ha incontrato centinaia di ragazzi. Come reagiscono ai suoi racconti? «Spiego che tutto può cambiare, come ha dimostrato anche la pandemia, e cerco di far capire che è meglio una democrazia zoppicante che un regime totalitario, come quelli che abbiamo conosciuto nel '900. Penso che un 20% capisca, gli altri mi paiono distanti».
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante