'Addio Milano bella', di Lodovico Festa
Commento di Diego Gabutti
Ludovico Festa, Addio Milano bella. L’ultima indagine dell’ingegner Cavenaghi, Guerini e Associati 2021, pp. 288, 18,00 euro.
Anche dopo la metamorfosi, nato il PDS, o partito democratico della sinistra, continuano i misteri del partito comunista, e in particolare i misteri della sua federazione milanese, dove opera il poliziotto dilettante di Lodovico Festa, l’ingegner Mario Cavenaghi, qui alla sua terza avventura. «Ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari bolscevichi», Cavenaghi è un Ciccio Ingravallo asciutto e senza iperboli. Iperbolico, in compenso, è l’universo parallelo, prima comunista, poi ex e postcomunista, nel quale gli tocca stanare spie, eretici, talpe sovietiche («ubique» anch’esse, è soprattutto nel PCI che s’infiltrano) e altri «malamente» politici. Più che un universo parallelo, in realtà, e più che una società seconda che mira ad allargarsi fino a sostituire la prima, via il capitale e sotto con la Gemeinwesen, la comunità umana fantasticata dai marxleninisti, il partito comunista italiano, finché è durato, è stato una sorta d’isola volante: un’isola distopica nel cielo, popolata di stramboidi acculturati, simile a quelle che incontra Lemuel Gulliver nei suoi viaggi.
Dopo la Bolognina, crollato il Soviet supremo, l’isola si spacca in due o più pezzi, e le sue parti roteano per un po’ l’una intorno all’altra, sbattendo tra loro e poi rimbalzando via come in un autoscontro da luna park. Sono isole separate, sempre più remote tra loro, dove però si parla la stessa lingua di gesso, si vivono le stesse (un po’ miserabili) vite militantesche, si leggono gli stessi libri per lo più pesanti e barbosi e si guarda con disprezzo involontariamente comico chi sbuffa quando gl’isolani attaccano con i massimi sistemi (con meno ci rimettono: «il blocco storico» di qua, «l’emergenza democratica» di là). Sono (direbbe il filosofo) sempre «animalescamente seri», tra l’altezzoso e il paranoico. Ne consegue che risultano del tutto incomprensibili ai visitatori esterni.
Siamo tutti Gulliver, insieme stupefatti e spaventati, ma anche un po’ affascinati, quando capitiamo (può succedere, metti un naufragio, metti una rivoluzione d’ottobre) in una delle isole volanti comuniste. Stavolta, alla sua terza inchiesta, l’ingegner Cavenaghi, già responsabile dei probiviri della federazione, deputato a far rigare dritto la sezione di partito che sbanda come il singolo militante che sgarra, deve indagare sulla scomparsa d’un paio di miliardi da un deposito segreto di fondi neri del partito. Chi li ha rubati? E perché li sta usando per finanziare viaggi-premio di membri sparsi del partito nei khanati socialisti superstiti (Cuba, il Vietnam, la striscia di Gaza)? Già questo è un bel mistero. Ma siamo nei primi novanta, e intorno, su una scala ben più ampia c’è il mistero dei misteri: Tangentopoli. Cioè l’inchiesta (anzi il naufragio della repubblica, anzi la rivoluzione d’ottobre giudiziaria) che farà piazza pulita di tutto ciò che tiene insieme il paese, dai partiti storici alle stesse istituzioni democratiche, sostituiti rispettivamente dai talk show (governati e popolati da tricoteuses gosciste particolarmente invasate) e dalle aule di tribunale (presidiate da tricoteuses gosciste in toga e tocco). Cavenaghi, che dopo la sua seconda inchiesta ha lasciato il partito e si è trasferito baracca e burattini a Lugano, viene pregato di scovare il ladro dei due miliardoni e di capire che cosa sta succedendo a Milano, dove i cannibali di Tangentopoli colpiscono a destra e a manca senza pietà ma risparmiano, strano caso, entrambe le reincarnazioni del vecchio PCI, non meno coinvolto in affari tangentizi del partito socialista, della Democrazia cristiana e dei partiti di centro.
Ex funzionario comunista, tra i fondatori del Foglio, Lodovico Festa non soltanto conosce come le sue tasche il milieu berlingueriano e prim’ancora togliattiano, di cui illustra in ogni suo libro l’antropologia, come in una specie di Ramo d’oro bolscevico o, come dice lui, «cominternista» (Il ramo d’oro è il classico Studio sulla magia e la religione di James Frazer). Festa conosce alla perfezione (e ricorda con esattezza) anche le reazioni del funzionariato e dei politburò italocomunisti d’antan al drammatico e catastrofico assalto giudiziario del 1992. Una parte del partito esulta all’idea di poter vincere la partita per squalifica d’ogni avversario, un’altra parte del parito trema per le sorti della democrazia, mentre il grosso del PDS ex PCI oscilla tra queste posizioni, un po’ esultando per la caccia ai socialisti da parte delle procure e per la cacciata di Craxi dal parlamento e dal paese, un po’ preoccupandosi per questo improvviso acutizzarsi dell’endemica guerra civile italiana. Divisa, la sinistra è tentata da ingenui propositi cannibaleschi: Rifondazione vuole papparsi il PDS, che da parte sua si è già annodato un tovagliolo al collo e, brandendo coltello e forchetta, s’accinge (avrà una bella sorpresa da parte di Silvio Berlusconi e di Publitalia) a strafogarsi di socialisti in libera uscita. Questo l’immaginario strategico dei postcomunisti. Ma non ci sono soltanto le fantasie elettoralistiche e di potere. C’è soprattutto la sostanza della loro storia di partito, che l’ingegner Cavenaghi squaderna nel corso della sua inchiesta: tangenti e fondi neri, inguacchi con i servizi segreti dell’est, amour fou per i tiranni, immoralismo, spregiudicatezza.
Addio Milano bella è uno strano romanzo poliziesco. Non è soltanto la storia di un’inchiesta, a un capo il mistero, all’altro capo la sua soluzione. È anche e soprattutto un’inchiesta sugli ultimi giorni del PCI. Festa indaga, oltre che sull’affaire dei miliardi scomparsi, anche su quel che è stato il PC italiano, sulle sue culture, sui suoi riti e miti. Questa seconda inchiesta, anzi, è la parte grossa, grassa e antropolgica del romanzo. Oltre che la terza indagine dell’ingegner Casiraghi, Addio Milano bella è dunque un’indagine sulla storia del partito comunista. Ne stanno uscendo molti, tutti poco interessanti. Questo è invece assolutamente da leggere.
Diego Gabutti