Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 06/01/2021, a pag.31, con il titolo "Restituzioni agli ebrei svolta storica" l'articolo di Umberto Gentiloni.
Umberto Gentiloni
Tra le pieghe nascoste della legge di bilancio (dal 30 dicembre 2020 in Gazzetta Ufficiale) compaiono misure che intervengono su una pagina controversa del nostro passato: la restituzione di beni a favore di chi è stato colpito dagli effetti della persecuzione razziale; le cosiddette "benemerenze", come merito acquisito e riconosciuto elargito dallo Stato verso cittadini italiani di religione ebraica. Un piccolo grande gesto, importante e qualificato, che giunge dopo decenni di discussioni, diverse commissioni di lavoro, sollecitazioni e pressioni di varia natura (a partire dall’impulso dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane). Negli ultimi anni, dopo che la questione più generale delle restituzioni di guerra è tornata prepotentemente di attualità in vari paesi del mondo (soprattutto dopo la fine della guerra fredda, nello scorcio conclusivo del Novecento), il confronto si è fatto serrato andando al merito della questione. Il punto di partenza richiama un giudizio consolidato grazie alle ricerche di archivisti e storici: «La legislazione riparatoria, avviata dal governo del Sud e sviluppata nell’immediato dopoguerra, per la spoliazione dei beni subita dagli ebrei, è stata tempestiva, ma non esente da gravi limiti che ne resero difficile l’applicazione, ulteriormente complicata da una puntigliosa interpretazione delle norme fortemente orientate a un’asettica analisi contabile dei dati» (Paola Carucci, "Restituzione in Italia", Dizionario dell’Olocausto a cura di W. Laqueur e A. Cavaglion, Einaudi 2004).
La spinta recente del legislatore tende a chiarire aspetti ambigui per proporre una nuova cornice capace di superare limiti e condizionamenti stratificati nella normativa vigente. Il riferimento di partenza è una legge del 10 marzo 1955 (primo firmatario Umberto Terracini) "Provvidenze a favore dei perseguitati politici o razziali e dei loro familiari superstiti". Le discontinuità introdotte si concentrano soprattutto su due piani. Il primo riguarda il quadro cronologico con il superamento del perimetro temporale dell’8 settembre 1943: un richiamo esplicito alla storia del biennio cruciale della guerra civile (1943-45). Tale estensione dilata lo spazio delle persecuzioni subite comprendendo l’intera fase di occupazione nazifascista coinvolgendo con tempi e modalità variabili diverse zone del territorio italiano conteso. L’assunzione piena di una periodizzazione condivisa come asse storico di riferimento: dalle origini delle discriminazioni alla conclusione della Seconda guerra mondiale, dalle leggi del 1938 alla liberazione del 25 aprile 1945. Può sembrare persino banale, ma non lo è, il tempo più ampio racchiude le scelte del regime, le forme di collaborazionismo, le dinamiche plurali delle persecuzioni a sfondo razziale. Il secondo piano riguarda l’aspetto delicato delle motivazioni, la controversa questione dell’onere della prova. Il provvedimento di fine anno ribalta i termini del problema. Fino a oggi, nel lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle, l’interessato o l’interessata doveva dimostrare, prove alla mano, di aver subìto una forma di discriminazione persecutoria: un atto di violenza, di sopraffazione, un’intimidazione finalizzata al conseguimento di obiettivi ben precisi. Con la nuova impostazione si mette da parte l’impianto soggettivo considerando centrale la permanenza della legislazione anti ebraica del 1938 applicata con rigore e convinzione negli anni successivi. Finisce quindi l’umiliazione di dover mostrare le tracce dell’esito positivo della propria persecuzione e si restringe progressivamente lo spazio delle interpretazioni su cosa possa essere considerato come «una prova» di efficacia della macchina persecutoria.
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