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Informazione Corretta Rassegna Stampa
21.12.2020 Antivita di Italo Svevo
Recensione di Diego Gabutti

Testata: Informazione Corretta
Data: 21 dicembre 2020
Pagina: 1
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «Antivita di Italo Svevo»
Antivita di Italo Svevo
Recensione di Diego Gabutti

Nino Aragno Editore
Maurizio Serra, Antivita di Italo Svevo, Aragno 2017, pp. 396, 25,00 euro.

Doveva succedere, alla fine, che anche quelli che non sono artisti – convinti che l’arte consista nell’«esprimere se stessi», nel portare abiti stravaganti e occhiali dalla montatura colorata – si proclamassero tali. Ma ci sono stati artisti, prima della civiltà in cui ciascuno ha diritto a una pallina rossa sul naso, che passarono la vita, o una sua parte, a tacere e sorvegliare la propria natura, come Aron Hector Schmitz, in arte Italo Svevo, che si votò «al conformismo per proteggere la sua musa freddolosa» ed evitare quello che lì per lì sembrava essere il peggio: la metamorfosi che da borghese, e da rispettato uomo d’affari, avrebbe potuto farne uno «scapigliato di provincia».

Che talento quel mezzemaniche La rivincita del «filisteo» Svevo -  Corriere.it
Al centro, Italo Svevo

A raccontare le due vite (e persino un po’ la doppia vita) di Schmitz/Svevo, la vita propriamente detta e la vita segreta, letteraria, provvede Maurizio Serra col suo Antivita di Italo Svevo, apparso in prima edizione nel 2013 a Parigi (dove escono in prima edizione tutte le biografie di Serra, compreso il libro su Musssolini in via di pubblicazione). Storico e biografo senza eguali, sottile talento di romanziere in prestito alla saggistica e alla critica letteraria, Serra ha pubblicato anche una straordinaria biografia di Curzio Malaparte: Malaparte. Vita e leggende, che nel 2011 gli ha guadagnato il Premio Goncourt. In seguito, prima di scrivere una fortunata biografia di D’Annunzio, si è misurato con la vita, l’antivita e l’opera di Italo Svevo, ebreo triestino, italiano e mitteleuropeo insieme, di cui illustra le labirintiche complessità ideologiche e il modernismo sobrio, disadorno, che si vieta ogni acrobazia formale. Svevo fu il maestro indiscusso di questa particolare cifra letteraria: la narrativa sguarnita, insieme umoristica e dolente, che agli occhi di «Benjamin Crémieux, il critico francese che ebbe un ruolo importante nella scoperta» della Coscienza di Zeno, faceva del suo personaggio più noto, protagonista del suo ultimo romanzo, «una specie di Charlot borghese e triestino». Diventò italiano (come s’augurava da sempre, al pari degli altri irredentisti) nel peggiore dei momenti possibili: quando il fascismo era alle porte e in tutta l’Europa si stava alzando un vento di follia (che da molti indizi non sembra essersi ancora placato). «Noi siamo una vivente protesta», scrisse una volta, «contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani)».

Ridicolo, tra Tarzan delle scimmie e il Vate dannunziano, il superuomo italiano, russo e tedesco che ereditò il mondo a conclusione della Grande guerra (la più horror delle conclusioni) stabilì il suo implacabile dominio sulle masse, già allora sotto incantesimo populista. Svevo – che finalmente non era più tenuto a pagare di tasca propria la pubblicazione delle sue opere, come ai tempi di Una vita e di Senilità, usciti rispettivamente nel 1892 e 1898, diventò un fenomeno letterario internazionale nel 1923, con La coscienza di Zeno. Smise d’essere un comune borghese, e diventò un artista, se non uno scapigliato, quando l’Europa, trasformata in un circo dei fenomeni viventi, era battuta da bande armate al servizio di gangster carismatici e non c’erano più nazionalità né identità da perdere o irredentismi da guadagnare. In esilio dal «mondo di ieri», come altri artisti del suo tempo, Svevo diventò uno degli «esploratori» di Karl Kraus, «mandati per il mondo da un’oscura regione della terra». A Trieste, dove lavorò nell’azienda della suocera, una sorta di «madre fallica» per i suoi figli e generi, fu tra i primi a scoprire quello che lui avrebbe potuto chiamare un «ordigno»: la psicanalisi, di cui non si fidò mai fino in fondo (fu subito una religione e, con la sua esegesi comoda e sempliciotta della condizione umana, equivalente metafisico del dia-mat, il materialismo storico e dialettico, anticipò le Notti di Valpurga del XX secolo). Fu fermamente detestato da Umberto Saba, poeta e libraio antiquario, che pare non gli abbia mai fatto uno sconto su un libro. Ebbe per amico James Joyce, di molti anni più giovane di lui (prima della guerra, l’autore dei Dublinesi insegnava alla Berlitz School di Trieste, o «Berlitz Cul», come lui preferiva chiamarla, e una volta diventato celebre, quando l’Ulisse aveva messo a rumore il mondo, fu l’artefice della fortuna di Svevo presso gli editori inglesi e francesi).

«Un grande titolo d’onore per la mia città – scriverà Svevo nella Conferenza su James Joyce, del 1927 – è che alcune strade di Dublino s’allungano nell’Ulisse per certe tortuosità della nostra vecchia Trieste». Morì nel 1928, sessantasettenne, per le conseguenze d’uno stupido incidente d’auto. Gli fu risparmiato l’oltraggio delle leggi razziali, quando il suo busto, «nel 1942, se non prima, fu smantellato con l’indicazione perentoria: “Il bronzo serve alla patria”. L’epigrafe, se vogliamo chiamarla così, fu completata dal termine “Giudeo”, che poteva estendersi anche allo scultore Mayer. Il gesto univa l’imbecillità alla profanazione, due divinità che vanno volentieri a braccetto».

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Diego Gabutti



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