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La Stampa Rassegna Stampa
28.08.2002 Crolla il muro del pianto!


Testata: La Stampa
Data: 28 agosto 2002
Pagina: 7
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Allarme a Gerusalemme: «Crolla il Muro del Pianto»»
In questo interessante articolo Elena Loewenthal spiega la storia e l'importanza che ha per gli ebrei il Kotel o, com'è meglio conosciuto in tutto il mondo, il Muro del Pianto, quel muro che la tradizione considera residuo del tempio costruito da Re Salomone, e che oggi è minacciato da una grossa crepa. Segnaliamo,fra l'altro,la parte sull'origine della denominazione errata "Muro del Pianto", che continua a imperversare nel linguaggio comune.

Nelle tante lingue degli ebrei è detto da sempre e soltanto Ha-Kotel, il muro per antonomasia, al modo in cui la terra d'Israele è chiamata semplicemente Ha-Aretz, «il suolo», meta di speranze e nostalgie, di affanno e di un'attesa millenaria. Il muro sta crollando, annuncia allarmato il sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert, che ha chiesto l´immediato intervento del governo per prevenire un disastro storico e umano. Si parla di uno smottamento o di una grossa crepa che avrebbero provocato un misterioso rigonfiamento sulla parete Sud. Come ha detto qualcuno con triste sarcasmo ma altrettanta compartecipazione, solo un popolo un po' svitato può scegliersi un muro, anzi una muraglia immensa, quale luogo più vicino a Dio di cui disporre. Eppure è così, lungo una storia che dura secoli e generazioni e scocca con il rogo di Gerusalemme e del Tempio ad opera dei Romani, sotto la guida di Tito, nel 70 d.C.: questa data, tanto simbolica quanto violentemente cruciale, segna l'inizio della Diaspora ebraica e la perdita, per i figli d'Israele, dell'autonomia politica oltre che del loro unico luogo di culto, donde il fumo dei sacrifici si levava al cielo per conciliare l'Eterno. Nelle generazioni successive ai riottosi e indomiti giudei i Romani proibirono persino l'accesso alla città ormai ridotta a un rudere: San Gerolamo ne vide alcuni pregare in lutto per la città, sul Monte degli Ulivi - una lontananza struggente, donde si scorgeva tutta la spianata, impassibile e irraggiungibile. Dell'antico santuario restava soltanto un pezzo del muro di cinta, sul fronte occidentale che si rivolge al mare lontano e quasi ignora il deserto cui da sempre Gerusalemme si avvinghia: già rabbi Acha nel Talmud diceva con una specie di tristezza, ma fiduciosa, che la presenza divina non abbandona mai il Muro Occidentale - questo è infatti il nome per esteso del muro. Esso compare, per la prima volta in Occidente, dentro una cronaca storica redatta in Italia meridionale in ebraico rimato nel XII secolo, da un certo Ahimaatz ben Paltiel. «Muro del Pianto» è una dicitura pressoché ignota agli ebrei, entrata nell'uso attraverso l'arabo - che chiama «El-Mabka», cioè «luogo del pianto» la zona - e affermatasi con il mandato britannico in Palestina, dopo la fine della prima Guerra Mondiale. Per i figli d'Israele esiste infatti una valle del pianto, eco biblica e meta simbolica o geografica d'ogni disperazione. Ma al Muro no, non si va per piangere. Piuttosto per ricordare, e soprattutto per sperare. La tradizione lo considera residuo ancora del primo Tempio, quello concepito ed eretto con fasto inaudito da re Salomone - pietra levigata che pure non conobbe scalpello, cedri di Libano, ori e argenti a profusione. Ma l'attuale bastione risale con tutta probabilità alla ricostruzione successiva al primo esilio, quello che portò le tribù d'Israele e Giuda in Babilonia. Lungo 485 metri circa nel suo complesso, soltanto 58 di essi sono votati alla preghiera, alla meditazione, a una specie di solenne o quotidiano ritorno dell'anima. Entrati da una delle porte che s'affacciano sulla Città Vecchia, il Muro è come sospeso su uno spiazzo che declina lievemente. Nelle foto di prima del 1967 e della Guerra dei Sei Giorni, quand'era sotto dominazione giordana, lo si scorge a malapena nel fastello assiepato di case e baracche che lo occultavano quasi del tutto alla vista e come disdegnavano i rari fedeli. Oggi, il Muro attanaglia lo sguardo con la sua imponenza e con quel talento un po' prodigioso che ha la pietra di Gerusalemme, quella di restituire la luce del sole come se l'avesse ricevuta non un istante infinitesimale prima, ma millenni fa. E' un bianco opaco, striato di ocra scintillante, quello che colora gli immensi blocchi di pietra del Muro: man mano che ci si avvicina, lo sguardo tende naturalmente verso l'alto, in cerca del confine fra la terra e il cielo che lì sotto, ai piedi del bastione, sembra davvero più lontano che mai, definitivamente irraggiungibile. E come null'altro ci racconta dell'incolmabile distanza fra l'Eterno e le preghiere che ogni giorno di laggiù si levano, sottovoce. Ma oltre al continuo mormorare in ebraico, oltre ai colombi imperterriti e ai capperi che affidano le loro miti radici alle fessure fra un blocco e l'altro, abitano il Muro milioni di bigliettini di carta, ripiegati e infilati ad altezza d'uomo nelle crepe e negli anfratti. Ad essi da sempre gli ebrei affidano qualche desiderio che, depositato in questo luogo, è come se un poco fosse già stato esaudito. Di certo, dopo che si è lasciato il messaggio fra le pieghe del Muro - anche quando, come capita sovente, le parole volano nel vento senza far presa sulla pietra perché dopo secoli di bigliettini non c'è più modo di trovare un buchetto - si convive un briciolo meglio con la rassegnazione e il tonfo dei sogni infranti. E in fondo da sempre questo fa il Muro: attutisce l'attesa. Con la sua solidità maestosa, è un'evidenza storica ma anche teologica. E' come se tutto il passato ebraico - insieme al futuro - fosse imploso in quella pietra intorno alla quale archeologi, politici ed esperti vari discutono oggi, più o meno scossi da crepe e gonfiori allarmanti. In effetti, questa pietra a suo modo vive e respira davvero, non per metafora: non è soltanto il residuato di una storia remota, bensì un luogo presente, dove si giunge per pregare, riflettere, celebrare, ma soprattutto per scacciare l'attesa. Che sia del domani, della pace, del messia che non arriva mai. Per questo, dopo la guerra del 1967, il Muro è diventato una sinagoga unica al mondo, a cielo aperto - e forse proprio perché lì, come in nessun altro posto al mondo, il cielo è lontano: suddiviso in due settori come vuole la tradizione ortodossa d'Israele (uno per gli uomini e uno per le donne), lo spazio antistante il Muro è di fatto un tempio nell'accezione moderna del termine, destinato cioè alla preghiera collettiva, l'unica forma di culto consentita agli ebrei dopo che il Tempio è stato distrutto e nessuno può più praticare sacrifici o presentare offerte al Signore. Di quel Tempio costruito nel punto in cui Dio cominciò la creazione, là dove Abramo stava per immolare il suo Isacco, dove Giacobbe si addormentò, non resta più nulla, se non la spianata tanto sacra quanto inviolabile.


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