Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/11/2020, a pag.23, con il titolo "Geografia e giornalismo, le carte di Sullivan l’uomo che parla all’Iran" il commento di Alberto Flores d’Arcais.
Alberto Flores D'Arcais
Jake Sullivan
Quando nel novembre 2012 venne invitato a pranzo da Barack Obama durante un viaggio a Myanmar (lavorava al Dipartimento di Stato nello staff di Hillary Clinton), l’allora presidente gli chiese di spiegargli la storia di quella che un tempo era chiamata Birmania. Jake Sullivan - nominato da Biden nuovo consigliere per la Sicurezza Nazionale - era già un predestinato e Obama rimase ancora una volta affascinato dai suoi racconti. Lui spiegò al presidente come la passione per la geografia fosse nata nella cucina di casa, una famiglia tradizionale della ‘middle class’, dove i suoi genitori tenevano un grande mappamondo sul tavolo. Nato a Minneapolis (Minnesota), già negli anni del liceo era un passo avanti a tutti. Alla Southwest High School era il campione dei dibattiti studenteschi, il rappresentante degli studenti nel consiglio di scuola e venne definito all’unanimità dai suoi compagni come quello "che avrebbe avuto maggior successo". Studente di spicco non solo in classe, ottimo atleta (era titolare nelle squadre di calcio e cross country), una passione per il giornalismo (dirigeva il giornale scolastico). Laurea in scienze politiche a Yale, dottorato in relazioni internazionali a Oxford grazie alla prestigiosa borsa di studio Rhodes, Law School (di nuovo a Yale), assistente del giudice della Corte Suprema Stephen Breyer, il suo background non poteva passare inosservato tra i vertici democratici.
Nel 2008 lavora (è uno degli ‘allenatori’ per i dibattiti tv) per Hillary Clinton durante le primarie (perse) e poi per Obama nella vittoriosa sfida contro John McCain. Nei primi sei anni di presidenza Obama passa da un incarico di prestigio all’altro, prima con Hillary quando era segretario di Stato (viaggiando in 112 nazioni), poi come consigliere per la politica estera del vicepresidente Biden su Libia e Siria. La stima di tutti se l’era definitivamente conquistata nel novembre del 2013, quando Obama lo scelse per guidare un manipolo di diplomatici Usa negli incontri segreti (in Oman e a Ginevra) con una delegazione degli ayatollah di Teheran. Prima di lasciare (era il 2014) per una cattedra a Yale, un posto da senior fellow al Carnegie Endowment for International Peace e per la sua vecchia passione di giornalista-saggista (su The Atlantic, il miglior magazine americano). Per lo storico accordo con l’Iran è stato una pedina fondamentale e lo sarà di nuovo adesso, quando dalla nuova Casa Bianca democratica sarà chiamato a ridefinire i rapporti con il nemico che Donald Trump avrebbe voluto bombardare prima di lasciare la presidenza. Giocherà un ruolo chiave anche nella strategia di riequilibrio con la Cina e sull’asse Asia-Pacifico, uno dei suoi campi preferiti sia quando era al Dipartimento di Stato che nella Casa Bianca di Obama-Biden. Teorico dell’intervento umanitario, non è uomo da dare tregua ai despoti al potere e non solo. Lo ha dimostrato su Twitter già ieri: «Sono profondamente preoccupato per il rischio di violenza contro i civili, compresi i potenziali crimini di guerra, nei combattimenti intorno a Mekelle in Etiopia. I civili devono essere protetti e deve essere aperto il corridoio umanitario. Entrambe le parti dovrebbero iniziare immediatamente il dialogo».
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppre cliccare sulla e-mail sottostante