IC7 - Il commento di Diego Gabutti
Dal 16 al 21 novembre 2020
Due parole sul Mein Kampf
Monaco, 15 ottobre 1948. Confiscate alla fine della guerra dal tribunale di denazificazione, «le proprietà di Adolf Hitler ubicate sul territorio bavarese» furono definitivamente assegnate al governo dello Stato Libero di Baviera, il Länder tedesco dove il defunto Führer aveva i suoi depositi bancari. Tra le proprietà confiscate, i diritti del Mein Kampf, un libro famigerato, che adesso tutti dicono d’aver sempre giudicato, fin dal suo primo apparire nel primo dopoguerra e tanto più negli anni del regime, una specie di «grimorio» medievale, cioè un libro di magia nera, a metà il Necronomicon dell’«arabo pazzo Abdul Alhazred» (lo pseudobiblum inventato da H.P. Lovecraft per le sue agghiaccianti storie horror) e le chiacchiere da birreria d’un ex caporale con i baffi a spazzolino (di gran lunga il più agghiacciante caso di disturbo post traumatico da stress, o psicosi di guerra, mai registrato).
Da quel momento se ne parlerà come d’un «orribile mattone» che tutti avevano comprato e che ben pochi avevano letto. Disgraziatamente la realtà è un’altra: diffuso in oltre 12 milioni di copie, l’orribile mattone hitleriano, opera prima d’un demagogo delirante, aveva fatto guadagnare al suo autore 15 milioni di marchi e dopo il 1933, l’anno della conquista del potere, era stato letto «tutto o in parte» da almeno «un terzo dei tedeschi», come racconta lo storico Sven Felix Kellerhoff nel suo Libro proibito di Hitler, Rizzoli 2016, una storia comparata del nazionalsocialismo e del Mein Kampf. Erano tempi cupi e violenti, soprattutto in Germania, che aveva combattuto e perso la guerra dei gas e delle trincee. Non fu il libro a trovare il suo pubblico ma fu il pubblico a trovare il suo libro. A parte gli avversari politici, che lessero il Mein Kampf per criticarlo o beffeggiarlo, e fatta eccezione anche per i giornalisti e per i diplomatici stranieri, che ne riassunsero e illustrarono le tesi per mettere in guardia i governi e l’opinione pubblica dei propri paesi, i lettori del Mein Kampf erano soprattutto gli elettori di Hitler. Prendevano Hitler talmente sul serio da averne fatto il Führer per via elettorale e da leggere senza spavento, fino a condividerle, le sue preventive dichiarazioni di guerra alla Francia, i suoi vaneggiamenti antisemiti, le sue smargiassate da ubriaco sulla «razza dominante», il suo disumanesimo, le sue ridicole pretese d’artista e il suo dichiarato proposito di conquistare la Russia («terra asiatica» di cui si poteva «germanizzare» il territorio ma non gli abitanti, che andavano quindi tolti di mezzo).
Nel 1924, in prigione dopo il putsch di Monaco, Hitler scrisse il primo volume del Mein Kamp da solo, senza l’aiuto di nessuno (e si vede, per esempio da metafore imbarazzanti come «il crudele pugno del destino mi aprì gli occhi»). Erano le fantasie d’un agitatore politico che tifava per Mussolini e sognava di marciare su Monaco come il Duce aveva marciato su Roma. A trasformare questo libro grottesco nel «pugno del destino» che avrebbe «aperto gli occhi» della Germania e dell’Europa furono i suoi lettori. Scaduti i diritti nel 2015, oggi il Mein Kampf «è di pubblico dominio e può essere diffuso da chiunque in qualsiasi forma». Prima si doveva chiedere il permesso al governo bavarese, che non lo concedeva mai, nemmeno per edizioni «scientifiche» e sobriamente commentate. Prima del 2015 il Mein Kampf si pubblicava illegalmente; e non soltanto nei paesi antisemiti, in Iran, nella Striscia di Gaza, in Egitto e in Indonesia, ma persino nella Repubblica Ceca, dove nei primi anni del millennio, meno di quindici anni fa, l’orribile mattone nazionalsocialista si rivelò un best seller. Ne furono vendute 90mila copie: il pugno del destino aveva aperto gli occhi a 90mila nuovi lettori. Nel cielo dell’Europa, nuvoloni.
Diego Gabutti