Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 23/11/2020, a pag.IV, con il titolo "Il nemico? Chi ci decapita, non noi" l'intervista di Elisabeth Lévy a Alain Finkielkraut.
A destra: Alain Finkielkraut
Elisabeth Lévy
L'islamismo non deve più essere percepito come una nostra creazione, è il nostro nemico. Per il filosofo francese Alain Finkielkraut, l'assassino di Samuel Paty ha agito da solo, ma non è solo. Ai suoi occhi, questa vicenda rivela in maniera cruda ciò che tanti, troppi osservatori continuano a non vedere: il legame tra l'islamismo ordinario e l'ultraviolenza.
Elisabeht Lévy di Causeur - Dallo scorso 16 ottobre, tutti la pensano come Finkielkraut, pur esprimendosi meno bene. Cosa pensa di questo voltafaccia?
Alain Finkielkraut - A Berlino, nel dicembre del 2016, un terrorista che aveva prestato giuramento allo Stato islamico si è scagliato contro la folla di un mercatino natalizio. Bilancio: dodici morti e una cinquantina di feriti. Subito dopo, Angela Merkel, con molta dignità, ha annunciato: "Continueremo a vivere assieme"; e nelle sue condoglianze alla cancelliera, l'allora presidente francese, François Hollande, ha incriminato il camion: "Un camion si è gettato sulla folla". Dichiarazione che fece dire allo scrittore Renaud Camus: "Maledetto camion! Sono sicuro che i vicini del camion sono caduti dalle nuvole, come accade sempre in queste circostanze. Un po' riservato forse, ma sempre molto educato e non particolarmente religioso. Faceva sempre i fari quando lo si incrociava e non frequentava troppo la moschea, anche se è vero che ultimamente era diventato taciturno e non sopportava più la musica. Avrebbe dovuto allarmarci questo fatto, ma sa com'è...". "Per ritrovare la propria sovranità e difendere la civiltà europea, la Francia deve imperativamente affrancarsi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo" Una campagna d'odio che ha coinvolto almeno un genitore di un'alunna, un predicatore antisemita e alcuni studenti indignati dal suo corso sulla libertà d'espressione ha preceduto l'assassinio e lo ha reso possibile. Questa vicenda rivela in maniera cruda ciò che tanti esperti, editorialisti, responsabili politici e professori universitari continuano a non vedere: il legame tra l'islamismo ordinario e l'ultraviolenza. Detto in altri termini, il vivere assieme è una favola, i territori perduti della Repubblica sono territori conquistati dall'odio della Francia. Gli occhi si sono aperti, l'evidenza non può più essere dissimulata.
Molte persone che denunciavano l'islamofobia come il principale pericolo hanno cambiato completamente idea, facendo come se fossero stati sempre sulla stessa linea. Come scrive Milan Kundera in un passaggio de "I testamenti traditi" sul quale lei ha attirato la mia attenzione, comportarsi in questo modo significa stare dalla parte in cui soffia il vento.
Ciò non mette in discussione l'autenticità del loro cambiamento?
Forse lei ha ragione, ma questi conformisti mi preoccupano meno di coloro che persistono nel negare la realtà, nell'accecamento e nella criminalizzazione di coloro che avevano predetto ciò che sarebbe accaduto. Edwy Plenel (direttore del giornale d'inchiesta online Mediapart, ndr) ha parlato di un attentato a scopo terroristico, espressione straordinaria! Il terrorismo non è mai stato uno scopo, bensì uno strumento a servizio di una causa nazionale, rivoluzionaria o religiosa. Allo steso modo, nei giorni che hanno preceduto l'attentato di Conflans-Sainte-Honorine, Ségolène Royal ha affermato che non avrebbe mai parlato di islamismo perché nell'islamismo c'è la parola islam e non voleva essere colpevole di stigmatizzazione. Oggi non bisogna sottovalutare la potenza dell'antifascismo e dell'antirazzismo ideologici. Per numerosi editorialisti, l'estrema destra è il pericolo supremo e continueranno a delegittimare qualsiasi critica radicale dell'islam radicale in virtù di questo principio.
Anche i macronisti spiegano a chiunque sia disposto ad ascoltarli che il presidente non ha mai cambiato la sua linea. Qual è la sua opinione? Durante la campagna per le presidenziali, Emmanuel Macron proponeva la diagnosi seguente: "Il comunitarismo, in particolare quello religioso, ha prosperato sulle rovine delle nostre politiche economiche e sociali. La società statuaria, senza prospettive di mobilità, ha creato la disperazione sociale". Lui stesso, dunque, era portatore di una prospettiva di mobilità, voleva fluidificare il mercato del lavoro e "uberizzare" la società francese. Era il nemico delle rendite e l'amico della circolazione. A un problema economico in ultima istanza, apportava una soluzione economica. Non era buonismo: ai suoi occhi, era realismo. Ma questo realismo si è scontrato con la realtà. L'islamismo conquistatore non è solubile nell'economia, non deve essere trattato come il sintomo di qualcos'altro (la miseria, lo sfruttamento, la discriminazione), deve essere combattuto. Non è una nostra creazione, è il nostro nemico. Ma non ho bisogno del pentimento del capo dello stato. Constato con sollievo che si avvicina alla posizione di Manuel Valls e si allontana, contro una parte delle sue truppe, da quella di Aurélien Taché (esponente dell'ala sinistra della République en marche, ndr). La Francia ha perso tempo, ma Macron non è l'unico colpevole.
Si è parlato molto in questi giorni del vostro appello apparso sul settimanale Le Nouvel Observateur, "Insegnanti, non arrendiamoci!" nel quale denunciava la Monaco della scuola repubblicana. Le cose sarebbero andate diversamente se vi avessero ascoltato?
Ai tempi in cui io, Élisabeth Badinter, Élisabeth de Fontenay, Régis Debray, Catherine Kintzler abbiamo firmato quel manifesto di sostegno ai professori che rifiutavano il velo islamico in classe, ci è stato molto rimproverato il riferimento a Monaco, e le associazioni antirazziste, all'unanimità, hanno sparato a zero contro di noi. Il ministro dell'Istruzione di allora, Lionel Jospin, aveva scaricato la responsabilità della questione sul Consiglio di stato che, invocando la libertà di coscienza degli allievi, si è rifiutato di vietare il velo. Si è dovuto attendere il 2004 affinché fosse votata la legge che vieta l'ostentazione dei simboli religiosi negli istituti scolastici. Questa legge era necessaria, ma si rivela insufficiente perché la questione dei simboli religiosi nasconde un fenomeno molto più vasto e ben più grave, come ha mostrato il rapporto Obin (dal nome dell'ex ispettore generale dell'Éducation nationale Jean-Pierre Obin, ndr) apparso lo stesso anno in cui è stata votata la legge e subito sotterrato dalle autorità. Da allora, il problema ha continuato ad aggravarsi, e nei quartieri sensibili sono sempre più numerosi gli studenti che selezionano i testi studiati secondo le categorie dell'hallal (autorizzato) e dell'haram (proibito) - esattamente come ciò che trovano nei loro piatti. I professori sono tanto più indifesi in quanto l'amministrazione rifiuta molto spesso di sostenerli. Non vuole alzare un polverone. Dopo ciò che è successo a Conflans-Sainte-Honorine, la speranza è che i presidi possano riprendere il controllo della situazione, e che a tutti i livelli della scuola francese la compiacenza ceda il posto all'intransigenza.
L'identità francese, tuttavia, non è infelice solo a causa dell'islam radicale, ma perché la norma postnazionale e multiculturalista si è imposta sullo sfondo di migrazioni massive. A lungo termine, il partito dell'Altro, della decostruzione nazionale, del McDonald's planetario, non l'avrà vinta secondo lei?
Il trauma causato dalla decapitazione di un professore davanti alla sua scuola è profondo e durevole. Di fronte a questo orrore e a tutto ciò che lo ha reso possibile, gli occhi si aprono e i francesi che lo avevano dimenticato tornano a essere consapevoli di formare una nazione. Ma ciò basterà? Gli ultimi tre attentati di cui la Francia è stata teatro sono stati commessi da rifugiati. Sembra dunque essere giunto il momento di rivedere le condizioni del diritto d'asilo, la gestione del ricongiungimento familiare e la politica migratoria nel suo insieme, perché si può pure dissolvere qualche associazione e chiudere alcune moschee salafite, ma il terrore non si fermerà e la trasmissione della cultura francese in Francia sarà sempre più contestata, e dunque più difficile se il sistema continua. Ma come detto ad alta voce da Jean-Eric Schoettl (ex segretario generale del Consiglio costituzionale, ndr), qualsiasi inasprimento del diritto andrebbe incontro a problemi con la giurisprudenza delle corti supreme (il Consiglio di stato, il Consiglio costituzionale, la Corte di cassazione e la Corte europea dei diritti dell'uomo). Queste confiscano agli stati l'autorità necessaria all'applicazione della loro politica di ammissione dei migranti. L'intenzione è buona, si tratta di cancellare la macchia del rifiuto, da parte dell'Europa, di accogliere i rifugiati ebrei che fuggivano dalla Germania nazista durante i tempi bui del Ventesimo secolo. Così, queste grandi istituzioni creano un terreno fertile per il nuovo antisemitismo. Non si inclinano di fronte alla forza, a immagine degli ex collaborazionisti, credono di prestare soccorso ai deboli, ma il risultato è esattamente lo stesso.
Se da una parte la blasfemia è autorizzata dalla legge, dall'altra è ampiamente rigettata dalla società - non bisogna prendersi gioco del dio degli altri. La grammatica della distanza critica (e dei Lumi) è ancora d'attualità nell'epoca della benevolenza?
Come ricorda l'avvocato e scrittore Thibault de Montbrial nel suo ultimo libro, "Osons l'autorité", i giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo hanno dato ragione alla giustizia austriaca che aveva condannato per denigrazione di un culto religioso una scrittrice e conferenziera che aveva parlato di pedofilia in riferimento al matrimonio tra il profeta Maometto e una bambina di sei anni. La motivazione invocata dalla Corte era la pace religiosa e la tolleranza reciproca. Per ritrovare la propria sovranità e per difendere la civiltà europea fondata, effettivamente, sulla distanza critica, la Francia deve imperativamente affrancarsi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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