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La Repubblica Rassegna Stampa
22.11.2020 GB/USA: meglio essere realisti, il recente passato insegna
Editoriale di Maurizio Molinari

Testata: La Repubblica
Data: 22 novembre 2020
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Biden-Starmer la nuova via progressista»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/11/2020, a pag. 1, con il titolo "Biden-Starmer la nuova via progressista", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.

Le buone intenzioni non sono sufficienti: per questo l'esclusione dal gruppo direttivo del Labour inglese dell'antisemita e razzista Jeremy Corbyn è tutta da dimostrare. Per ora c'è stata una espulsione seguita da una riammissione. Un discorso analogo vale per la presidenza Biden, che comincerà a gennaio 2021. L'ala estrema del partito democratico - Sanders, Ocasio-Cortez eccetera - segnerà le decisioni del prossimo presidente che si scrive Biden ma va letto Obama? In politica estera, e in particolare nel rapporto con Israele e Medio Oriente, ci sarà continuità rispetto all'amministrazione Trump oppure una svolta? Gli otto anni della presidenza Obama (Biden vicepresidente, non dimentichiamolo) non sono un buon segnale Vedremo che cosa succederà nei prossimi mesi. Intanto è più prudente essere realisti.

Ecco l'articolo:

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Maurizio Molinari


Donald Trump, Joe Biden

L’ agenda su cui sta lavorando il presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, e le convergenze con le posizioni del leader dei laburisti britannici, Keir Starmer, suggeriscono che qualcosa di nuovo si affaccia in Occidente: un laboratorio di idee ed iniziative per portare le democrazie ad affrontare assieme le questioni globali che hanno pesanti conseguenze nei singoli Paesi, dalle diseguaglianze ai diritti, dalla pandemia al clima fino ai migranti. Ad alzare il velo su quanto sta maturando è Jake Sullivan, consigliere politico del presidente eletto, quando spiega che «Biden abbraccia l’intersezione fra temi domestici e internazionali non come una nozione astratta ma come una strategia».

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Corbyn: "Antisemita e razzista"

Dunque il programma di «investire in infrastrutture, innovazione, lavoratori, nel sistema immigratorio e nel rafforzamento delle istituzioni democratiche in America» porterà Biden a «riunire le maggiori nazioni democratiche attorno al comune obiettivo di respingere i rivali autoritari e contribuire a costruire le soluzioni di lungo termine alle sfide che affliggono tutti i nostri Paesi». È questa la cornice che vede maturare il progetto di un “summit fra le democrazie” che potrebbe essere convocato da Biden anche durante i primi cento giorni della presidenza — che inizierà il 20 gennaio 2021 — al fine di restituire all’America un ruolo di leadership globale ed al tempo stesso di elaborare risposte concrete a fronte di urgenze impellenti, a cominciare dalla ricostruzione economica dopo la pandemia. È ancora presto per conoscere i dettagli di questa iniziativa ma il fatto stesso che trapeli dal team Biden lascia intendere che sta affrontando la transizione richiamandosi al precedente di Franklin Delano Roosevelt che nel 1933 si insediò con il memorabile discorso dall’East Portico della Casa Bianca in cui disse «non dobbiamo temere niente altro che la paura stessa» per spingere l’America lontano dalla Grande Depressione verso il New Deal. Ed oggi in quelle condizioni è il mondo intero e non solo gli Stati Uniti. Un’altra differenza rispetto al 1933 è che allora, quando Adolf Hitler prendeva il potere in Germania, le democrazie erano appena 20 e le autocrazie ben 130 mentre oggi, dopo la sconfitta del nazifascismo nella Seconda Guerra Mondiale e del comunismo sovietico nella Guerra Fredda, le democrazie sono 101 e le autocrazie 78. Ovvero, è la democrazia rappresentativa basata sullo Stato di diritto il modello di governo prevalente sul Pianeta e dunque ha la responsabilità di elaborare risposte globali alle sfide comuni che generano le diseguaglianze, affliggono milioni di individui, alimentano la protesta del ceto medio, consentono al populismo di proliferare ed ai regimi di rafforzarsi ed essere aggressivi. In tale cornice assume un valore particolare la scelta del capo dei laburisti britannici, Starmer, di individuare in Biden e Kamala Harris «la possibilità di riempire il vuoto di leadership globale per costruire un futuro più ottimista» e di sottolineare come questo scenario nasce da una campagna elettorale nella quale i democratici americani hanno riconquistato gli Stati operai del Mid-West puntando su “famiglia, comunità e sicurezza”. «È la stessa ricetta con cui possiamo anche noi tornare a vincere nel Midlands e Nord dell’Inghilterra» ha aggiunto, riferendosi alle aree industriali ex roccaforti laburiste espugnate dai conservatori di Boris Johnson. Il messaggio di Starmer è inequivocabile: le diseguaglianze hanno spostato fasce di votanti progressisti nel campo dei conservatori, in America come in Gran Bretagna, e per riconquistarle bisogna saper tornare a parlare a questo elettorato che chiede protezione per le proprie famiglie e comunità. Una “protezione” — e qui è la convergenza più importante fra Starmer e Biden — che le democrazie possono garantire meglio unendosi per affrontare i temi globali che ci affliggono: pandemia, lavoro, clima, migrazioni. Ma non è tutto perché, come osserva Claire Ainsley, principale consigliere politico di Starmer, l’obiettivo è di emulare Biden anche nel «recupero del patriottismo» che alberga nella «nuova classe operaia» che si distingue per «condividere valori morali come il rispetto delle tradizioni, la lealtà alla comunità ed alla nazione» che in genere vengono associati con i conservatori. Jeremy Corbyn aveva voltato le spalle a questa working class delle aree industriali — che si sente “dimenticata” a causa dell’impatto della globalizzazione proprio come avvenuto al ceto medio del Mid-West americano — cedendo alle istanze di una sinistra radicale che lo aveva spinto a sostenere posizioni estreme sulla proprietà pubblica, la tassazione dei ricchi e gli interventi ambientali. Per non parlare dell’ostilità nei confronti degli ebrei e di Israele. Tutto ciò è stato archiviato assieme alla leadership di Corbyn dal successore Starmer e Biden ha dimostrato di ben comprendere come le rigidità dell’ala estrema dei liberal costituiscano una debolezza strategica: le ha prima sfidate durante le primarie, poi le ha isolate durante i lavori della Convention e quindi le sta emarginando dalla transizione, come dimostra l’uscita del nome di Susan Rice dalla rosa dei possibili segretari di Stato. Alexandria Ocasio-Cortez, combattiva deputata di New York e bandiera dei radicali, accusa Biden di «privilegiare le lobby» e lo attende «al varco della transizione sperando che la base del partito non venga ancora una volta abbandonata». Ma è evidente che, per Biden come per Starmer, la riconquista del ceto medio operaio passa per posizioni incompatibili — e non solo sul piano economico — con quelle della sinistra estrema nei rispettivi Paesi. Ovvero, l’insediamento di Biden vede l’opportunità per i progressisti in Occidente di aggredire le sfide globali con strategie capaci di garantirsi maggioranze di lungo termine ma al prezzo di isolare le ali più estreme. Saranno i prossimi mesi a dirci quali tappe sceglierà Biden per iniziare questo cammino ma la vicinanza con Starmer già suggerisce il ritorno dell’intesa rafforzata — per ora a livello di partiti — fra Washington e Londra, da sempre cuore di ogni intesa transatlantica. Fino al punto da far prevedere al team di Starmer convergenze con Biden in tempi stretti su ricostruzione post pandemia, nuova guerra fredda con la Cina ed emergenza climatica. Ponendo l’interrogativo su quali approcci avranno le forze progressiste dell’Europa continentale rispetto al ritrovato laboratorio liberal anglosassone.

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