Riprendiamo dalla REPUBBLICA delle DONNE, di oggi 22/11/2020, a pag. 69, con il titolo "Quelle firme che fanno la storia", l'intervista di Sharon Nizza.
Sharon Nizza
Hend Al Otaiba
IL 12 GIUGNO un tweet, scritto in ebraico, attira l'attenzione del pubblico israeliano: «Negli Emirati, e in gran parte del mondo arabo, vogliamo credere che Israele sia un'opportunità, non un nemico». Sui social, realtà parallela spesso capace di anticipare gli eventi, le dimostrazioni di apertura verso Israele da parte dei vicini mediorientali negli ultimi anni vanno crescendo, ma in questo caso a stupire non era solo il contenuto del tweet, ma il mittente: Hend Al Otaiba, Direttrice della Comunicazione Strategica del Ministero degli Esteri di Abu Dhabi. Una voce istituzionale, e femminile, che a nome di uno Stato arabo apre a Israele, cancellando montagne di radicati preconcetti in un sol cinguettio. Da quel momento Al Otaiba è diventata il volto di quella che, due mesi più tardi, si è rivelata la svolta che sta cambiando il Medioriente da come lo conoscevamo finora: gli Accordi di Abramo. Il 12 giugno Lior Hayat, l'omologo israeliano di Al Otaiba, ritwittava infatti il curioso messaggio come se si trattane di una sorpresa inaspettata. Nel ruolo di portavoce dei rispettivi Ministeri degli Esteri, entrambi sapevano bene quello che i più hanno scoperto solo due mesi dopo, il 13 agosto, quando l'annuncio degli Accordi è stato reso noto al grande pubblico da Donald Trump (con un altro tweet, neanche a dirlo). Poco più che 30enne, madre di due bambini, il velo che accarezza un volto sorridente e fotogenico, Al Otaiba da poco più di un anno ricopre l'incarico attuale, con il mandato di raccontare gli Emirati Arabi Uniti (Eau) al mondo. Dal 2017 nelle file del Ministero, ha alle spalle una carriera in Abu Dhabi Media, il colosso che gestisce 27 marchi legati al mondo della comunicazione. «L’obiettivo degli Emirati è creare un Medioriente più pacifico, tollerante e prospero», dice in colloquio concesso a D dal suo ufficio di Abu Dhabi. «Gli Accordi di Abramo formalizzano quanto era già chiaro: gli Eau e Israele non sono nemici e non sosterranno ostilità contro una delle due parti. Vogliamo creare un motore di crescita regionale tra i Paesi più dinamici dell'area». Dalla sigla degli Accordi, affermazioni di questo tenore sono sempre più comuni anche nella stampa saudita e del Bahrein, Paese del Golfo che ha seguito Abu Dhabi firmando gli Accordi con Israele nella cerimonia che si è tenuta alla Casa Bianca il 15 settembre. Sebbene nelle stanze del potere si stesse lavorando da un decennio a questi risultati, si tratta di una rivoluzione vera e propria che la società civile sta ancora metabolizzando, anche se l'istantaneità dei social consente di colmare lacune in tempi record. «Sto prendendo lezioni di ebraico dai miei nuovi amici israeliani!», scherza infatti Al Otaiba quando legge i suoi tweet in ebraico, tra cui il tradizionale Shabbat Shalom, che gli ebrei augurano il venerdì prima dell'entrata del giorno del riposo. In questa intervista esclusiva, Al Otaiba condivide con D la logica e il messaggio che si celano dietro a uno storico avvenimento che sta ridisegnando la mappa mediorientale.
Com'è stato partecipare alla firma alla Casa Bianca? «Un grande onore, a livello professionale e personale. Un momento storico, altamente toccante, che in pochi tra noi avrebbero potuto immaginarsi crescendo. È anche la simbolica dimostrazione del fatto che la visione degli Emirati per la regione si sta concretizzando. Noi lo chiamiamo "il modello emiratino": mettere in primo piano le aspirazioni concrete delle persone, vivere una vita all'insegna della salute, della realizzazione e della sicurezza personale. Ogni anno i sondaggi nel mondo arabo ci dimostrano quanto gli Eau siano la prima destinazione scelta dai giovani arabi che cercano un cambiamento. La maggior parte di questi giovani vuole trovare un impiego e crearsi una vita dignitosa, si arroccano sempre meno sulle vecchie posizioni ideologiche che hanno caratterizzano la scorsa generazione. L'accordo di pace, così come la visita di Papa Francesco e la nostra missione su Marte partita a luglio, rientrano in questa visione».
La pace in Medio Oriente secondo Dry Bones
La sua posizione verso Israele è cambiata nel corso degli anni? «Certamente. Così come la posizione del nostro Paese è cambiata e continuerà a cambiare mentre i due Paesi interagiranno sempre più. Sono evoluzioni che in genere avvengono lentamente, ma, vede, gli Eau sono un Paese molto pragmatico: è nato solo 50 anni fa, ma ha vissuto una svolta estremamente rapida, straordinaria. Abbiamo compreso che, anche nella nostra posizione verso Israele, era necessaria un'evoluzione, un maggiore impegno anche per essere più influenti. La politica della totale disconnessione si è dimostrata fallimentare. Dovevamo separare le questioni politiche da quelle fondamentali per lo sviluppo del nostro Paese e della nostra regione, come il commercio, la scienza e la tolleranza».
La leadership palestinese ha condannato gli Accordi come "tradimento". Pensate davvero che la vostra nuova posizione possa aiutare i palestinesi ad avere finalmente il loro Stato? «Gli Eau sono sempre stati sostenitori ardenti del popolo palestinese, inclusa la soluzione dei due Stati. I palestinesi dovrebbero godere dei benefici che questa normalizzazione porterà anche a loro. In primis, grazie alla nostra posizione "o normalizzazione, o annessione", abbiamo fermato il progetto di estensione della legge israeliana in Cisgiordania. Ora chiediamo a israeliani e palestinesi di impegnarsi in un dialogo costruttivo».
Che molo possono avere le donne in questo scenario? «Sono una grande sostenitrice del coinvolgimento delle donne negli sforzi della diplomazia. Le donne palestinesi e israeliane hanno davanti un'opportunità storica di dialogo, anche con la nostra mediazione, e speriamo che i futuri tentativi di costruire una soluzione duratura e sostenibile al conflitto portino frutti grazie in parte al contributo delle donne. Israele ed Eau sono forse i due Paesi della regione che investono di più nel potenziamento delle figure femminili, anche nell'arena diplomatica. Come donna emiratina professionista, molti dei miei risultati sono stati resi possibili grazie al riconoscimento da parte del mio Paese del ruolo fondamentale chele donne svolgono nella vita economica, politica e sociale. II 50% del nostro Consiglio nazionale federale è femminile, così come un terzo del nostro governo. Nel settore pubblico, le donne occupano il 66% degli impieghi, un 30% in ruoli dirigenziali. E nel privato, oggi 23mila donne d'affari gestiscono progetti per un valore di oltre 13 miliardi di dollari. Questi dati possono rappresentare la base che ci consentirà di fare da catalizzatore per un cambiamento positivo in quest'area».
Sono già nate iniziative in questa direzione? «Diverse, tra cui la fondazione del primo Forum femminile Israele-Golfo, inaugurato a Dubai, che riunisce imprenditrici da entrambe le parti».
In Israele il servizio militare è obbligatorio anche per le donne. Negli Emirati? «Possono scegliere. Nel 1991 abbiamo creato qui la prima accademia militare femminile e una nostra pilota ha fatto la storia sia come prima pilota nel mondo arabo, sia per la sua partecipazione alla Coalizione contro l'Isis. Abbiamo appena lanciato all'Onu il Programma di Formazione per le Donne, la Pace e la Sicurezza, in cui addestriamo donne dei Paesi in via di sviluppo a diventare forze di peacekeeping. È un progetto di cui sono particolarmente fiera perché è in linea con gli sforzi degli Eau per coinvolgere le donne in modo più centrale nella diplomazia».
Qual è la lezione più importante che ha appreso nel corso della sua carriera? «Ho imparato che i tuoi sforzi sono apprezzati quando rimani fedele ai tuoi valori e mostri dedizione nel tuo lavoro. E importante avere curiosità e continuare a studiare e coltivare le proprie passioni. E intelligenza emotiva è fondamentale quando si interagisce con le persone e le donne hanno un talento speciale in questo. Tutti dovrebbero farne tesoro».
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