Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/11/2020, a pag. 1, con il titolo "Frammenti di Celan", la recensione di Matteo Marchesini.
Matteo Marchesini
La copertina (Mondadori ed.)
Spesso chi si accosta a Paul Celan è attratto dai dati biografici più eclatanti (genitori morti in un lager, suicidio nella Senna) o dalle sue poesie più famose: la "Todesfuge", dove i forni crematori sono tombe scavate nell'aria, e il "Salmo" che in un'atroce parodia di preghiera cristiana loda un Dio chiamato "Nessuno". Avanzando a tentoni nell'oscurità dei versi celaniani, il lettore nota l'insistenza su alcuni dettagli: mandorle, bocche, rose, ma soprattutto pietre e nevi, cioè i sepolcri anonimi delle masse cancellate dallo sterminio. Quei vocaboli fanno pensare a fossili incagliati nella pagina, irrelati e statici, finché di colpo non li scuote arbitrariamente un verbo come werfen, "gettare". A ogni scena si tende ad attribuire lo sfondo della Shoah, anche quando il buio e l'immobilità dei corpi alludono forse all'amore. Sto generalizzando, credo legittimamente, un'esperienza personale; ma non potrei fare altrettanto riguardo alle impressioni di lettura.
Paul Celan
A vent'anni, al primo approccio, Celan mi lasciò perplesso. Sospendevo il giudizio, intimidito: se mi confrontavo con gli esperti, più che dei critici trovavo dei sacerdoti esaltati, che abusavano di gerghi misticheggianti e toni apocalittici. Vent'anni dopo io sono meno timido, ma i sacerdoti continuano ad avvolgere il poeta nel loro chiacchiericcio pseudoprofondo. Si dirà che Celan non è responsabile della deriva idolatrica. D'accordo; però viene da chiedersi perché attiri tanti tipi del genere. In parte, è vero, la sua storia sembra fatta apposta per nutrire il parassitismo culturalista di accademie e media: un poeta esule, poliglotta, cresciuto in una terra ex asburgica dove si mischiano tedesco, yiddish, rumeno e ucraino, che scrive nella lingua della madre e dei suoi uccisori, che subisce le violenze naziste e sovietiche, che cerca invano un dialogo con Heidegger e Adorno e si butta dal Pont Mirabeau... Ma c'è dell'altro. Mentre si diffondeva la fama della "Todesfuge", l'autore cominciò a esserne infastidito. Quella musica rischiava di convalidare l'idea adorniana secondo cui, dopo Auschwitz, la poesia suona come un abbellimento indecente dell'orrore. Per sottrarre la tragedia sia all'oblio" sia all'oro" di parole "corteggiate dalle orecchie puttane dei boia", Celan si mise allora a tracciare ponti di metonimie sospesi nel vuoto. Eppure proprio questo balbettio cifrato e perentorio lo ha consegnato alle manipolazioni ermeneutiche. Forse però il problema è alla radice. A fine anni 50 Celan si entusiasmò per Mandel'§tam. Anche il russo, morto senza tomba come i suoi, era un ebreo ramingo, perseguitato, accusato di plagio, un poeta di orizzonti amorosi e cosmici costretto a farsi civile. Ma per ammirare senza condizioni i versi di Mandel'stam non occorre diventare mandelstamiani, mentre per aderire convintamente all'opera di Celan occorre lasciarsi iniziare al suo culto. Mandel'tam secerne poesia come respira; Celan, dagli esordi rilkiani ai frammenti 'abissali', ha sempre bisogno di appoggiarsi a una retorica per impostare la voce. E ci si può chiedere se quei frammenti, anziché scoraggiare un'arte consolatoria e un'esegesi mistificatoria, non tendano viceversa a stimolarle. Come succede spesso, la conferma di una fragilità poetica viene dalla prosa: che non di rado è involuta, altisonante, e appena tenta l'arguzia cade in rovesciamenti un po' meccanici, o perfino in calembour pedestri.
Lo si può verificare nel pur notevole "Microliti", la raccolta inedita di narrazioni scorciate e di aforismi, stesi tra il '47 e il '70, che Mondadori ci propone per questo doppio anniversario celaniano. Il curatore Dario Borso osserva che dopo il 1960 il sentimento di persecuzione trasforma gli aforismi in epigrammi e i racconti in apologhi. Celan attacca e si difende con satirica o ieratica brevità, in modi via via più cupi: schernisce gli antisemiti che "quando leggono Pound, capiscono perfino il cinese", e insieme giustifica l'oscurità genuina della poesia, destinata a sconcertare come ogni vero "incontro con un estraneo". Ma a volte la poesia non sembra abbastanza reale nemmeno al poeta; e allora, se vuole incontrare sul serio le ombre che evoca, deve abbandonarla per raggiungerle. E' qui che la sorte poetica e la sorte umana di Celan si fondono sinistramente: "`Parli in modo così incomprensibile' fece il morto al morente, `balbetti solamente, balbetti come un neonato. Parla più chiaro, parla più mortifero!". Questo brano non si legge senza un brivido, come l'appunto su Ofelia "primatista di nuoto". Il cammino percorso dal poeta dopo il '45 appare legato a un elastico che a poco a poco si tende e lo riporta indietro al trauma bellico. "Nulla è più nero dell'alba luminosa del ricordo", scrive già il giovane Paul, giocando su un ossimoro che ricorda il "negro latte dell'alba" di "Todesfuge". Il nero coincide con il bianco più estremo, e viceversa: in Celan, notava Giuseppe Bevilacqua, il contrario è "la forma mistica del superlativo". Nei "Microliti" c'è molto Kafka, ma un Kafka storpiato da una solennità rancorosa. Ogni tanto però si trova un pezzo degno del modello. "I miracoli sono verità tenute sotto a lungo, che si condensano fino a far massa", azzarda Celan nel 1962. Un'intuizione che il Novecento ha dimostrato in forma di superlativo mistico, esemplificando abbondantemente il contrario del miracolo.
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