Nagorno-Karabakh: la tragedia degli armeni in fuga Analisi di Pietro Del Re
Testata: La Repubblica Data: 17 novembre 2020 Pagina: 19 Autore: Pietro Del Re Titolo: «Nagorno-Karabakh. Gli armeni in fuga con le spoglie dei morti»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 17/11/2020, a pag. 19, con il titolo "Nagorno-Karabakh. Gli armeni in fuga con le spoglie dei morti", l'analisi di Pietro Del Re.
Pietro Del Re
Incalzati dall’arrivo delle truppe nemiche, i vinti in fuga si portano appresso anche le ossa dei loro morti. Sicuri di avere perso per sempre le loro sacre montagne, gli armeni del Nagorno- Karabakh scoperchiano le bare appena riesumate per caricare nel portapacchi delle auto, assieme a qualche valigia carica di abiti, anche i poveri resti dei loro cari. È accaduto a Shusha la settimana scorsa, poco prima che l’esercito di Baku la riconquistasse, e accade in queste ore nel distretto di Kalbajar che, secondo l’accordo di pace firmato lo scorso 9 novembre, gli armeni dovranno restituire all’Azerbaijan la settimana prossima, dopo averlo occupato negli ultimi trent’anni. Molti stanno anche bruciando le loro case pur di non lasciarle nelle mani dei “turchi”, come, con una punta di disprezzo, i separatisti armeni chiamano gli azeri. «In fondo alla valle, vedo tante colonne di fumo, che sono il gesto simbolico della nostra sconfitta. Quanto alle tombe, le spostiamo anche per impedire che i “turchi” le profanino», dice l’insegnante Eduard Sevak, che avevamo incontrato il mese scorso a Stepanakert e che raggiungiamo al telefono da oltreconfine, dalle rovine del borgo agricolo di Barda, pesantemente bombardato dall’artiglieria armena durante i recenti combattimenti. Sui social azeri girano video che mostrano l’abbattimento compulsivo di alberi d’alto fusto, non solo nei boschi, ma anche nei villaggi che stanno per essere riconsegnati alle truppe di Baku. Prima di abbandonare le loro fattorie, i secessionisti distruggono perfino le arnie piene di miele. «Nessuno ha voluto comprare le mie pecore e devo purtroppo lasciarle ai “turchi”. Ci penseranno loro a sgozzarle », dice Taline Petrosian, giovane contadina di un villaggio all’ingresso del distretto di Kalbajar. «Sono nata qui e ho sempre considerato la mia patria tra questi monti. Ma adesso che è stato firmato un accordo di pace mi dicono che devo fare le valigie perché la mia famiglia avrebbe usurpato la terra di altri. E a 26 anni mi ritrovo improvvisamente senza più né un tetto sopra la testa né un pezzo di terra da coltivare. Il mio futuro è in una tenda in un campo profughi ». Quando le chiediamo perché non rimane, dal momento che il presidente azero, Ilham Aliyev, ha promesso che garantirà pace e dignità a tutti gli armeni dei territori appena riconquistati, Taline Petrosian risponde di non avere scelta. «Verrei prima torturata e poi ammazzata. Da due giorni sto perciò cercando un passaggio verso l’Armenia, ma hanno tutti le auto cariche di roba da portar via, compresi polli e lavatrici », dice ancora la donna che racconta di aver visto, all’ingresso della base militare di Kalbajar, la testa di un maiale appesa con un cartello di benvenuto per i suoi prossimi inquilini che recita: “Fuck Azeris!”. «Oltre al grave danno economico, questi vandalismi sono uno sfregio nei confronti di chi sta per riprendere possesso del territorio che fu militarmente sottratto all’Azerbaijan trent’anni fa», spiega Tural Ganjaliyev, parlamentare e presidente della comunità azera del Nagorno- Karabakh, il quale ci assicura che quando fu costretto ad abbandonare la sua casa di Shusha, dopo la sconfitta azera del 1992, suo padre lasciò le chiavi nella toppa. Più ottimista e minimizzando l’antico rancore che separa i due popoli, un diplomatico azero che incontriamo a Baku sostiene che l’accordo di pace mediato dalla Russia è il punto di partenza per negoziati che dovranno disegnare una pace duratura in tutta la regione. «Ricreare un’armoniosa coabitazione tra armeni e azeri conviene a tutti, soprattutto economicamente, perché in fondo siamo entrambi caucasici, e soltanto unendo le nostre forze riusciremo a sfruttare le enormi risorse che offre questa terra». In serata, raggiungiamo sul suo cellulare il portavoce di Arayik Harutyunyan, presidente l’Artsakh, l’autoproclamata repubblica karabakha che nessun Paese ha mai riconosciuto. «A coloro che oggi accusano il premier armeno di tradimento per aver firmato l’accordo, dico che siamo stati tutti dei traditori perché non eravamo abbastanza forti da combattere questa guerra, eppure abbiamo mandato a morire più di duemila ragazzi. Quanto alla nostra capitale culturale Shushi (Shusha in armeno, ndr ), era difesa solo da un centinaio soldati». Intanto, un esodo biblico riempie la strada verso Vardenis, città di frontiera armena, che si raggiunge attraversando un passo a 2.700 metri. E decine di migliaia di profughi si stanno ammassando a Erevan, capitale di un Paese di tre milioni d’abitanti e dall’economia malconcia, tanto di far temere con l’arrivo dell’inverno una grave emergenza umanitaria. Ieri, Vladimir Putin ha chiamato al telefono Emmanuel Macron per informarlo della creazione di un centro di risposta umanitaria russo per risolvere le questioni urgenti, tra cui il ritorno permanente dei rifugiati alle loro case. Sempre ieri, il presidente turco Erdogan ha chiesto al parlamento di Ankara l’autorizzazione per l’invio di truppe in Nagorno-Karabakh: per monitorare il piano di pace ma soprattutto per non lasciare soltanto alla Russia il controllo del territorio conteso tra Armenia e Azerbaijan. La settimana scorsa Putin non ha voluto condividere la vittoria con Erdogan, il quale adesso rivendita la sua parte di gloria per aver sin dall’inizio sostenuto e incoraggiato il desiderio di rivincita del presidente azero.
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