'Il re di Varsavia', di Szczepan Twardoch Recensione di Susanna Nirenstein
Testata: La Repubblica Data: 14 novembre 2020 Pagina: 11 Autore: Susanna Nirenstein Titolo: «Gangster story, a Varsavia»
Riprendiamo da REPUBBLICA - Robinson di oggi, 14/11/2020 a pag.11, con il titolo "Gangster story, a Varsavia", la recensione di Susanna Nirenstein.
Susanna Nirenstein
La copertina (Sellerio ed.)
Szczepan Twardoch ci porta nella Polonia appena prima dell'Occupazione. Tra ebrei malavitosi sui quali incombe il nazismo il 1937 quando incontriamo Jakub Shapíro. Siamo a Varsavia. La Storia sovrasta la scena, l'ombra di Hitler si allunga sulla Polonia. Shapiro è ebreo, bellissimo, alto, massiccio, sexy, un boxer della categoria pesi massimi adorato dalla folla. Ha 37 anni e sul ring sta martellando di cazzotti un ariano fascista. Di fronte all'antisemitismo che avanza il pubblico ebraico è entusiasta, lo acclama come un eroe. Imbattibile, Jakub non è solo un pugile, è anche il braccio destro di un capo mafioso, cristiano, un piccoletto tozzo potentissimo omaggiato da mezza città, Jan Kaplica detto Kum, socialista da sempre. Lo capiamo subito di che pasta son fatti, macchinone, pistole, tangenti, soldi, bordelli, violenza spietata: Jan ha appena ordinato a Jakub di uccidere un piccolo commerciante ebreo ortodosso per il mancato pagamento del pizzo, un assassinio efferato che viene eseguito con tanto di smembramento del cadavere. E altri, molti altri, ne vedremo. Ce lo racconta in prima persona cinquant'anni dopo Moises Bernstain — il figlio diciassettenne del povero ebreo fatto fuori — diventato Moises Inbar, un comandante in pensione dell'esercito israeliano che scrive le sue memorie da Tel Aviv: si ricorda della profonda infatuazione che ebbe fin dall'inizio per Jakub, lui, un piccolo, fragile, povero membro di una famiglia religiosa che viene quasi adottato dal bel malavitoso assassino di suo padre: guardando il suo sguardo sicuro e strafottente, seguendolo come un'ombra, capisce che non esiste un solo modo di essere ebreo, si taglia le peyot, i riccioli laterali, si accorcia i vestiti, smette di mangiare kosher, lascia la vecchia identità. Comunque fin dall'inizio sull'identità di Bernstain/Inbar/Jakub ci sono dei dubbi, per esempio quando il vecchio militare si rivolge alla sua donna Magda e lei gli dice ripetutamente che quello non è il suo nome, e lui stesso ne dubita. Lo snodo della vicenda sarà strabiliante. Il re di Varsavia del polacco slesiano Szczepan Twardoch (classe 1969), così ben tradotto da Francesco Annichiarico e con la postfazione di Francesco Cataluccio, edito da Sellerio, abbonda di punti interrogativi, drammi, doppie verità, strappi e colpi di scena. Non potrebbe essere altrimenti in un romanzo criminale sull'orlo della Shoah. La tragedia incombe in ogni scena. Anche se non tutti i protagonisti la sanno vedere. Emilia, la moglie di Jakub, sì, lei spinge per emigrare con lui e i due figli in Palestina, «vogliono fare uno stato ebraico lì», «Andiamo via di qui, Varsavia è dei polacchi», ma si trova davanti a un netto rifiuto, «Io non sono ebreo» le risponde, «Io sono Shapiro, Varsavia è mia». Il giovane Bernstain lo guarda rapito, è così onnipotente quell'uomo, sicuro di sé, fa paura a tutti, forte, adorato dalle donne, anche da Rifka, la padrona del bordello preferito dalla gang, una che ha dei trascorsi difficili e importanti con lui. D'altra parte sapremo sempre il passato dei molti personaggi che attraversano il racconto, gangster ebrei e non, governanti, sindacalisti, giornalisti, socialisti, sionisti, fascisti, femmine d'ogni classe e religione, psicopatici, nullità: Twardoch è uno scrittore fatto così, oltre a ricostruire con attenzione la scena politica di quel momento esplosivo dove si affaccia un colpo di stato della destra più retriva che la gang cerca di contrastare, insegue e dipana le storie di ognuno, tante, e riesce a popolare di mille facce questa Varsavia divisa tra cristiani-polacchi e ebrei, santi e delinquenti, poveri e milionari. Una città che certo avevamo intravisto in alcuni libri di Isaac Bashevis Singer come Keila la rossa, stracolma di sinagoghe, ladri, prostitute, furfanti, che qui appare a volte addirittura come una sequenza di Quei bravi ragazzi, il film sulla mafia newyorchese di Martin Scorsese, tanto è subissata di violenze sanguinarie, di protagonisti senza pietà che non sanno distinguere il bene dal male eppure tengono fede a un codice di Il protagonista è Shapiro, bellissimo, alto, massiccio, sexy, un boxer della categoria pesi massimi adorato dalla folla lealtà e appartenenza. Non è solo questa la cifra del romanzo. Twardoch di tanto in tanto rende la realtà impalpabile come un sogno, per quanto dominata da due personalità come quelle di Jakub Shapiro e Jan Kaplica, duri come il ferro eppure costretti anche loro dagli avvenimenti a soffrire. Ad esempio quando Bernstain/Inbar parla, a volte dice «non sono una persona», e ci sarà da credergli. Oppure quando uno della gang, Pantaleone, nasconde dietro alla testa, sotto i lunghi capelli, un'altra faccia ghignante. Allucinazioni? Nel cielo Una città stracolma di sinagoghe, ladri, prostitute, furfanti, che qui appare a volte come una sequenza di "Quei bravi ragazzi "di Scorsese livido di Varsavia si affaccia spesso, visibile solo dal giovane Iosef Bernstain e da Jakub, un'enorme balena volante dalle fauci spalancate e gli occhi ardenti, un vero e proprio Leviatano biblico che minaccia il futuro di ognuno, anche se no, forse Shapiro e la sua famiglia insieme a quella del fratello sionista Moris prenderanno quel sacrosanto aereo per la Palestina di cui hanno già i biglietti in tasca e saranno salvi. Il Leviatano sta lì, guarda l'affanno barbarico che Twardoch ci dipana davanti, e, alla fine, con una giravolta, ne afferreremo il senso.
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