Riprendiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA di oggi, 13/11/2020, a pag.34, con il titolo "Norimberga, il processo adesso è finito" il commento di Tonia Mastrobuoni.
Tonia Mastrobuoni
Gli imputati di Norimberga
Quando Hermann Göring, il gerarca più potente del Reich dopo Adolf Hitler, si consegna il 9 maggio del 1945 agli americani, il colonnello Andrus lo descrive come «un uomo cianciante dal sorriso instupidito». Uno dei boia della "soluzione finale", l'architetto dell'Anschluss, il generale dei micidiali bombardamenti di Coventry e Canterbury, è l'ombra di se stesso, un signore obeso piegato dai barbiturici. Ma pensa di poter trattare con gli Alleati a nome del Reich. Agli americani scappa da ridere: Göring non ha capito che la Germania ha capitolato, che anche per lui è suonata l'ora zero e presto verrà giudicato in un'aula che passerà alla storia. Quella del tribunale militare di Norimberga. I cronisti accorrono a Kitzbühel, nella sua dorata prigione dei primi giorni. E Goring li accoglie quasi allegro, fresco di bagno, stretto nella sua uniforme grigia dalle frangette dorate. Loro vogliono conferme delle sue atrocità da ministro dell'Aviazione, lui le ammette candidamente. Soprattutto, vogliono sapere se sa di essere sulla Iista dei criminali di guerra. Goring cade dalle nuvole: «Mi sorprende molto» risponde. «Non ne capirei il motivo». A Norimberga, un anno e 218 udienze dopo, sarà condannato a morte per impiccagione. Prima dell'esecuzione si toglierà la vita col cianuro, chiuso nella sua cella. Gli americani impazziranno per capire come se lo sia procurato, cosi come si erano maledetti per non aver trovato la capsula di cianuro nascosta in bocca a Heinrich Himmler, il capo delle SS che si era suicidato appena catturato alla fronti era. «Avrei accettato una fucilazione» scrive Göring all'amata Emmy, dopo il lungo processo che l'ha visto come uno dei principali imputati. «Ma il Reichsmarschall della Germania non può farsi impiccare». Settantacinque anni fa, i120 novembre 1945, nell'Aula 600 del tribunale di Norimberga, per Göring e altri 23 gerarchi della dittatura nazista inizia il maxi processo che è diventato una pietra miliare della storia del diritto. Sul banco degli imputati sfilano, tra gli altri, Rudolf Hess, Joachim von Ribbentrop, Wilhelm Frick, Albert Speer, Hans Frank, Alfred Rosenberg e Franz von Papen, insomma alcuni dei maggiori criminali di guerra della storia. Quasi tutti, alla fine delle udienze che ricostruiscono 12 anni di inferno, si dichiarano innocenti. Quasi tutti sono condannati a morte o a lunghi anni di carcere.Tra i 250 giornalisti e scrittori che raccontano le strazianti udienze ci sono John Dos Passos e Alfred Döblin, Ilja Erenburg ed Erika Mann. Un giovane cronista tedesco inviato dai giornali norvegesi dopo un lungo esilio all'estero, un certo Willy Brandt, sintetizza il senso degli interrogatori: «Non fare i conti con i gerarchi nazisti sarebbe stato uno schiaffo al senso di giustizia universale».
UN MODELLO PER L'AJA Klaus Rackwitz annuisce. «Questa è l'aula dove tutto cominciò. Dov'è nato il diritto internazionale e il principio che nessuno è al di sopra della legge, che i responsabili di guerre e atrocità devono sempre essere messi dinanzi alle loro responsabilità» ci racconta il direttore dell'Accademia internazionale dei principi di Norimberga. Le fondamenta giuridiche del tribunale dell'Aja, dei processi ai macellai dello sterminio in Ruanda o ai criminali del le"pulizie etniche" in Bosnia, sono qui. «Ma anche la perseguibilità dei terroristi dell'Isis o di Boko Haram» sono stati stabiliti per la prima volta, e in maniera universale, nell'aula della città della Franconia dove per un anno i boia di Hitler divisero la stessa stanza con le vittime e i giudici delle quattro potenze alleate. A distanza di tre quarti di secolo, l'Aula 600 sembra persino piccola. Le pareti in legno e i bassorilievi pseudobarocchi in marmo che decorano gli ingressi, la grande croce appesa al muro, danno l'idea di un posto nato un secolo fa. Ma non riescono più a tra smettere la solenne gravità del processo del secolo. Marcus König, sindaco di Norimberga, protesta: «Guardi che questo è il più grande edificio in Baviera, sono 600 stanze. E' un po' più piccolo di Buckingham Palace». Nel 1916, quando lo inaugura il re della Baviera Ludovico III, gli trovano persino una stanza per sistemare il trono. L'organizzatore di Norimberga, la figura chiave delle udienze, è Robert H. Jackson, rispettato giudice della Corte suprema americana. Il processo comincia con le sue parole. Le atrocità dei nazisti «non sono tollerabili da parte della nostra civiltà: non sopravviverebbe a una ripetizione delle stesse. Che quattro grandi nazioni, soddisfatte della loro vittoria e torturate dolorosamente dalle ingiustizie avvenute, non si vendichino ma consegnino i loro nemici catturati volontariamente a un tribunale, è una delle più importanti concessioni che il potere abbia mai fatto alla ragione». Non è un dettaglio da poco: il dittatore sovietico Stalin avrebbe voluto subito fucilare, tout court, i gerarchi nazisti; fu soprattutto il primo ministro britannico Churchill a battersi per un giusto processo. Soprattutto, Jackson sottolinea che non è un processo «al popolo tedesco».
ULCERE E SVENIMENTI Eppure, la Germania ha rimosso per decenni il tribunale di Norimberga. Nel 1946, quando si chiudono le porte del processo, l'Aula 600 viene restituita, fino al 2005, ai giudici locali: i tedeschi sembrano voler dimenticare, dedicando quelle sacre quattro mura a evasori o ladri di galline. Visitando il museo nuovissimo istiSopra, una sala del nuovo museo nel tribunale di Norimberga dedicato allo storico processo nell'edificio, al terzo piano, si nota che gli oggetti sopravvissuti alle udienze, infatti, sono pochissimi. Ci sono i banchi su cui Hess si lamentava delle ulcere o l'ex ministro degli Esteri Ribbentrop svenne mentre l'accusa leggeva le mostruosità del suo regime. I materiali originali, i mobili, gli oggetti di quell'Aula storica, dopo decenni di Grande rimozione, sono quasi tutti spariti, ad eccezione dei voluminosi atti del processo.
FERITE ANCORA APERTE «E ovvio» ci racconta lo storico dell'Università di Erlangen-Norimberga, Christoph Safferling: «Per il popolo tedesco quel processo è rimasto a lungo una ferita aperta. In tutto il mondo era considerato una rivoluzione, qui una vergogna. Chi aveva il coraggio di dire l'inesprimibile, parlava di"giustizia dei vincitori", ma in realtà Norimberga ricordava sempre ai tedeschi quanto fossero stati complici». I più conservatori facevano notare che anche le potenze vincitrici si erano macchiate di crimini di guerra. E in effetti, il processo rischiò persino di incagliarsi sul Patto Molotov-Ribbentrop, quando spuntò un documento che dimostrava perla prima volta che Stalin e Hitler si erano messi d'accordo per spartirsi la Polonia. Ma il documento, di origine ignota, fu dichiarato nullo. E il processo andò avanti. Tuttavia, nei decenni dopo la guerra, prosegue Safferling, «l'interesse internazionale non si è mai spento per questo luogo. E quindi anche i tedeschi hanno dovuto cedere, alla fine». Accadde a partire dal 1993, «quando i processi internazionali ai criminali nella ex Jugoslavia e in Ruanda diventarono una celebrazione indiretta del tribunale-madre. Per l'anima tedesca arrivò una tardiva legittimazione di Norimberga». Ma lo storico stesso racconta di essere cresciuto vicino alla città bavarese, di essere andato a scuola negli anni 80. «Si parlava tanto del nazismo, come in tutte le scuole tedesche. Ma nessuno menzionava mai questa sala».
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