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La Repubblica Rassegna Stampa
07.11.2020 Elezioni Usa: Trump chiede il controllo dei voti, alcuni repubblicani pronti ad appoggiare Biden
Commento di Alberto Flores d’Arcais

Testata: La Repubblica
Data: 07 novembre 2020
Pagina: 6
Autore: Alberto Flores d’Arcais
Titolo: «Trump non arretra ma ora i big del partito gli voltano le spalle»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/11/2020, a pag.6, con il titolo "Trump non arretra ma ora i big del partito gli voltano le spalle", il commento di Alberto Flores d’Arcais.

A destra: Donald Trump, Joe Biden

Il partito repubblicano, o almeno una parte della sua leadership, sceglie il suicidio aprendo a Joe Biden, che i risultati delle elezioni finora emersi sembrano dare vincitore, invece di insistere perché venga verificato il conteggio dei voti. Il sistema elettorale americano concede un mese di tempo per fare ricorso e ricontare le preferenze espresse dai cittadini. E' quello che chiede Donald Trump, mentre a opporsi duramente è il comitato elettorale di Biden. Ma se non c'è nulla da nascondere, perché opporsi?

La posizione di Trump è resa più difficile dai comportamenti non onesti di una parte dei rappresentanti del suo stesso partito. E' questa una situazione tipica delle democrazie e trai repubblicani c'è chi è pronto a unirsi a Biden: non stupisce, anche in Italia esistono da sempre prassi analoghe. Le richieste di Trump però rientrano pienamente nella legalità costituzionale. E' una battaglia difficile ma onesta. E' questa la democrazia.

Ecco l'articolo:

Alberto Flores D'Arcais – Scuola Superiore di Giornalismo
Alberto Flores D'Arcais

Casa Bianca - Wikipedia
La Casa Bianca

I voti che arrivano dagli Stati non ancora assegnati gli stanno togliendo la Casa Bianca sotto i piedi, ma Donald Trump non molla di un centimetro. Il suo obiettivo è chiaro, fare in modo che il presidente degli Stati Uniti venga scelto dai nove giudici della Corte Suprema (maggioranza repubblicana 6 a 3) alla fine di una lunga battaglia giudiziaria. Gioca una carta molto pericolosa, che rischia di incendiare le piazze di un’America mai così divisa nell’ultimo secolo, quella di andare avanti ad ogni costo, senza "concedere" (come vorrebbe il tradizionale fair-play) la vittoria a Biden. La task force di centinaia di avvocati al suo servizio sta intentando cause non solo negli Stati non ancora "chiamati" nella colonna democratica o in quella repubblicana, ma anche in Wisconsin e Michigan, già da giorni assegnati a Joe Biden. Cause che per ora non hanno avuto alcun successo. «Con l’attacco dei Dem della sinistra radicale al Senato repubblicano, la Presidenza diventa ancora più importante!». Su Twitter The Donald detta la linea ai suoi, chiede annullamenti di voti postali e riconteggi (in Georgia quasi certo, in Pennsylvania possibile) anche se poi si contraddice («Philadelphia ha una storia marcia di integrità elettorale! »). Ottiene l’appoggio incondizionato del suo vice Mike Pence e della figlia Ivanka - le due persone su cui puntavano i democratici per farlo ragionare - ma inizia a perdere pezzi importanti tra i vertici del Grand Old Party al Congresso (dove comincia a girare la voce che The Donald oltre a una propria tv vorrebbe farsi anche una sorta di "partito personale"). E lo criticano anche gli avvocati e i costituzionalisti repubblicani che venti anni fa in Florida guidarono (con successo) la battaglia legale di George W. Bush contro Al Gore. «Sono mosse disperate», «allora era completamente diverso da oggi », «nessuno, compresi molti repubblicani pensano che ci siano brogli», «Trump è una persona che considera lo scontro giudiziario come un business», «è una vicenda costruita »; queste le parole di Barry Richard e degli altri legali repubblicani del 2000. «Servono delle violazioni legali per fare un ricorso», commenta seccamente Don McGahn, che Bush nominò membro della commissione elettorale federale nel 2008 ed è stato consigliere legale della Casa Bianca anche con Trump. Il fuoco amico che il presidente non si aspettava arriva però da Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblica al Senato e suo fedelissimo che rilascia una dichiarazione che sconfessa le accuse non provate su cui insiste Trump: «Ogni voto legale dovrebbe essere contato. Le schede presentate illegalmente non devono essere contate. Tutte le parti devono osservare il processo. I tribunali sono qui per applicare le leggi». McConnell non è solo. Per Pat Toomey, senatore repubblicano della Pennsylvania, «le accuse del presidente di frodi su larga scala non sono comprovate, possibili ricorsi alla Corte Suprema si possono fare solo su basi fondate, che non ci sono». E Mitt Romney, candidato del Gop nel 2012, è ancora più duro: «Dire che le elezioni sono state truccate, corrotte o rubate danneggia la causa della libertà, indebolisce le istituzioni e infiamma passioni distruttive e pericolose». Larry Kudlow, consigliere economico del presidente, getta acqua sul fuoco: «Penso che ci sarà un pacifico trasferimento di poteri. Questa è la più grande democrazia del mondo e rispettiamo il ruolo della legge». Sono voci che Trump non è però disposto ad ascoltare. Fa girare tra i reporter della Casa Bianca le voci su un prossimo licenziamento dei capi del Pentagono e dell’Fbi. La battaglia legale intanto va avanti, con decine di cause in tutti gli Stati dove la Casa Bianca vede degli spiragli. Quelli non ancora assegnati, come Nevada e Arizona (dove Biden è sempre in testa) e quelli come Wisconsin e Michigan che The Donald non vuole assolutamente mollare a dispetto di risultati ormai certi a favore del candidato democratico. C’è poi un nuovo elemento, che potrebbe dilagare nel weekend e nella prossima settimana: la mobilitazione della base (e dei media) che rispondono all’appello del Commander in Chief gridando al «golpe ». In ogni angolo degli States si stanno preparando proteste, rally e manifestazioni di appoggio a Trump e contemporaneamente si stanno raccogliendo fondi per quella che i fan del presidente definiscono «la battaglia finale per la libertà della grande America». Il rischio di sanguinosi scontri di piazza diventa reale.

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