Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/11/2020, a pag.1 con il titolo "Nel Nagorno Karabakh assediato dai tiranni si annienta un popolo" il reportage di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Dalla fine di settembre, da quando gli azeri e i loro alleati turchi hanno attaccato l'Alto Karabakh per conquistarlo, c' è la guerra. Gli armeni la conoscono. Possono aprire un libro e raccontare un genocidio, il primo del secolo. Fulmineamente sembra che il tempo non sia passato per questo popolo risorto; abitano quella terra e pensavano di essersi finalmente meritati la benedizione di quella bellezza, il dono della sua ricchezza, per gli anni che hanno passato, e le città che erano state distrutte, i padri figli i fratelli uccisi, i cuori viventi ottenebrati dall'odio. Guardiamo le foto che Roberto Travan ha scattato in Armenia e nell'Alto Karabakh. Le fotografie sono parole, sono atti di accusa, prove a disposizione del tribunale della Storia. Perché quello per l'Artsakh, così gli armeni chiamano questa regione, non è un conflitto guizzato fuori dalle mani maldestre della diplomazia; è un tentativo di eliminare gli armeni, un altro, l'ennesimo di distruggere questa piccola tribù cristiana che per i suoi nemici è gente che non ha nessuna importanza, e la cui storia è finita, le cui guerre sono state già tutte combattute e perse. Gli armeni, asserragliati in quel loro campo di pietre, montagne che si sono sfasciate sul terreno come se il tempo le avesse invecchiate e fossero rimaste le ossa, conoscono la guerra: l'ultima negli Anni 90 sempre contro gli azeri ha fatto trentamila morti. Non si illudono più, sanno che essa non è romantica ma barbara.
L'arte dell'annientamento La foto del cimitero di Stepanakert, la capitale. La fila in alto, con le corone e i fiori appassiti, è quella dei martiri del conflitto del Novanta; un gradone e sotto, la terra ancora fresca, la trincea dei morti di queste settimane di combattimenti. Più in basso attende lo sasso, appena spalancato dal badile degli sterratori, che abbraccerà i caduti di oggi, di domani. Tre tregue sono già state violate, gli azeri hanno bombardato anche l'ospedale pediatrico della capitale. Gli armeni sanno che sono soli, la guerra per loro durerà anni, rubando un insostituibile brano di vita. Negli Anni 90 si combattè quasi corpo a corpo, i civili si rifugiavano nei boschi ma il cielo era azzurro e vuoto, dava speranza. Adesso la guerra è mille volte più orrenda, più bestiale, più disumana. Anche il cielo uccide, è nemico: è la guerra vigliacca, meccanica, il delitto perfetto dei droni che gli azeri, padroni del cielo, lanciano in continuazione. Un arsenale con il modello russo Bayraktar e quelli israeliani, i droni kamikaze, Orbitar e Harep2. Sfrecciano, le sirene urlano, i rifugi, le cantine non servono a nulla. Lassù così in alto e così in lontananza da poterlo appena vedere un volo di terribili uccelli di ferro si muove in circolo cercando le sue vittime. Un rifugio: coperte di lana, giacigli da cui sbucano guance scavate e occhi scintillanti, facce sbiancate dalla tragedia, spossate da notti insonni. Ritirati in se stessi questi armeni come tutti i profughi di sempre, pensano alla vita e alla morte. E poi un soldato con occhi da bambino, occhi di un campagnolo poco avvezzo alla guerra, scruta il cielo da una finestra della sua postazione, in mano l'inutile fucile. È all'opera qui una nuova, moderna, diabolica arte di annientamento. Uccidere non basta più. Gli azeri inviano sui telefonini degli armeni fuggiti (il 90% dei 150 mila abitanti del Karabakh si è rifugiata in Armenia, sono rimasti solo gli uomini a combattere), atroci messaggi: abbiamo torturato tuo fratello tuo padre tuo marito... Un uomo ha aperto il suo profilo Instagram: c'erano le immagini del fratello decapitato nel loro villaggio. Dall'altra parte c'è la bestialità ruggente e infuriante dei mercenari siriani, islamisti che la Turchia impiega per le sue guerre imperialiste, contro i curdi, in Libia, ora qui. Attirati dal soldo, indifferenti all' essere a fianco degli azeri sciiti e con un governo post sovietico e laicista, sono in fondo povera carne da cannone. Hanno perdite elevatissime, gettati nella mischia senza rimorsi dai reclutatori di Ankara. Abbiamo inventato noi la privatizzazione della guerra, in Iraq. Ora si ritorce contro.
II nuovo impero ottomano Un vecchio ucciso in un rifugio improvvisato la cui volta non ha retto alle bombe. Una mano pietosa gli chiude le palpebre, per sempre. Senti la necessità di urlare come se avessi preso in mano un ferro rovente. E vorresti sapere come erano gli occhi di questo vecchio spalancati sulla vita prima di quell'istante, la sua andatura, i suoi silenzi, la sua insonnia, la sua schiena curva. Quante esistenze ha vissuto un uomo prima di morire. Ho bene in mente la foto di una madre che abbraccia, sdraiata a terra, la tomba fresca del figlio ucciso. Non ci sono ombre, neppure scialbe. Senti l'infelicità dilagarti dentro. Tutto il dolore ci appartiene prima che i ricordi diventino minuscole, remote immagini sempre più piccole e lontane, finché non si dileguano del tutto. Su questo contano gli assassini di ogni tempo. Questo massacro non è una appendice delle guerre del fanatismo, delle guerre di dio. È semplicemente un passaggio del disegno del nuovo impero ottomano che Erdogan ha raccolto dalle mani del subdolo sultano Abulhamid, dalle elucubrazioni omicide dei Giovani turchi che firmarono l'eliminazione di un milione e mezzo di armeni durate la Prima Guerra mondiale. Il progetto prevede che la Turchia e l'Azerbaigian si colleghino in questa area turcofona dell'Asia centrale. Il Karabakh armeno sta in mezzo, bisogna spazzarlo via.
La complicità dei despoti Eppure dio viene ucciso con gli uomini. Nella cattedrale di Shushi demolita, negli occhi di questo soldato ferito che accende in chiesa una piramide di candele. Nessuno in Armenia crede più nella giustizia delle guerre volute da dio, neppure ha più fede nella giustizia e nella durevolezza della pace che si vuole conquistare. Gli armeni come gli ebrei sanno come con la stessa rapidità con cui si cancellano dalle superficie della terra le orme del massacro può anche svanire dalla memoria degli uomini il ricordo del suo orrore. Un piccolo popolo, una nazione che si sforza di esser democratica assediata da uno scenario di tiranni più o meno ipocriti. Si illudono che Putin intervenga. Illusi. I despoti non si mordono, sono sempre complici. E noi Occidente, noi Europa? In Francia e negli Stati Uniti teppisti turchi istigati da Erdogan assaltano impunemente armati di martelli e cacciaviti i cortei degli armeni che chiedono solidarietà. Gli armeni si uniranno agli altri che abbiamo tradito, che abbiamo fatto finta di non vedere: i siriani i curdi gli ucraini i somali. Perché dovremmo spendere denaro e diplomazia, batterci per Paesi che la maggior parte degli occidentali non saprebbero neanche scrivere correttamente? Il Caucaso con il suo guazzabuglio di popoli, le lotte che si perdono nei millenni... Suvvia! Rinneghiamo ogni giorno la legge più alta, sei vittima, tu sei mio fratello, che onora la storia umana. Afflosciati dalla pandemia e dall'economia chi immagina di affrontare Erdogan? Meglio restare alla memorabile formula di lord Hugh Cecil: grattare la testa del coccodrillo per fargli fare le fusa. Lo chiamarono anche lo spirito capitolando di Monaco, 1938. Agli armeni braccati dai droni possiamo al massimo donare gli sterili piagnistei di belle anime contristate.
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