Il Manifesto contro la pace in Medio Oriente Con il pezzo di Chiara Cruciati
Testata: Il Manifesto Data: 25 ottobre 2020 Pagina: 8 Autore: Chiara Cruciati Titolo: «L'altro Sudan, piazze e partiti politici dicono no all'accordo con Israele»
Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 25/10/2020, a pag. 8, con il titolo "L'altro Sudan, piazze e partiti politici dicono no all'accordo con Israele ", il commento di Chiara Cruciati.
Continua la campagna contro la pace in Medio Oriente del Manifesto. Oggi, assente Michele Giorgio, ci pensa Chiara Cruciati, secondo cui "i sudanesi scendono in piazza" per protestare contro l'accordo del loro Paese con Israele. Ma la giornalista non si perita di chiarire quanti sudanesi hanno protestato, quanti hanno taciuto, quanti si sono detti favorevoli alla pace. La posizione del quotidiano comunista di fronte agli Accordi di Abramo rivela la posizione del giornale, che non aspira alla pace in Medio Oriente ma al conflitto e alla demonizzazione di Israele.
Ecco l'articolo:
Chiara Cruciati
Ogni popolo normalizza a modo suo: se tanti emiratini avevano celebrato sui social l'Accordo di Abramo con Israele pregustando un viaggio a Tel Aviv, se i bahraniti avevano veementemente protestato online, i sudanesi salgono di livello. E scendono in piazza. Non appena Donald Trump ha annunciato, venerdì, l'accordo di normalizzazione tra Sudan e Israele (in cambio della rimozione del paese africano dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo, atto definito dall'Iran «un'estorsione»), a Khartoum la gente ha bruciato bandiere israeliane, cantato slogan («No alla riconciliazione con gli occupanti, sempre al fianco della Palestina»), rinnovato la solidarietà al popolo palestinese. Ma contrarietà giunge anche dai partiti politici del paese immerso in una fase di transizione costata sangue e fatica dopo le proteste popolari che hanno portato, con un golpe militare, alla cacciata del trentennale dittatore Omar al-Bashir. Solo dopo mesi di stragi di piazza da parte di militari e paramilitari e sfiancanti negoziati, nel luglio 2019 e nato un governo di transizione civil-militare, di durata triennale. Che oggi i partiti colpiscono nel suo tallone d'Achille: un esecutivo non eletto ma solo chiamato a condurre verso le elezioni non ha il potere di normalizzare. Tra i primi a reagire è il Popular Congress Party, parte della federazione civile Forces of Freedom and Change (Ffc) espressione delle varie anime delle piazze sudanesi: «La nostra gente, sistematicamente isolata e marginalizzata dagli accordi segreti, non è tenuta a rispettare l'accordo. Continuerà a tenere le sue storiche posizioni, a lavorare per resistere alla normalizzazione e a sostenere il popolo palestinese».
Le bandiere di Sudan e Israele
Contrari anche Sadiq al-Mahdi (a capo del Partito Umma non che ultimo premier eletto prima del golpe di al-Bashir nel 1989) che parla di violazione della legge interna e il Partito Baath, parte della Ffc, che ha anticipato un possibile ritiro della fiducia al governo. Insomma, l'aria che tira non è la migliore per il premier Hamdock e per il capo del consiglio di transizione, il generale al-Burhan, considerato l'uomo dietro l'accordo. Anche per questo ieri il ministro degli esteri Gamareldin gettava acqua sul fuoco: l'accordo «sarà deciso dopo aver realizzato le istituzioni costituzionali, con la creazione del consiglio legislativo'. Tutto rinviato? Si vedrà: le elezioni sono previste per il 2022 e di consigli legislativi non c'è ombra. Di certo Khartoum di tutto ha bisogno in questo momento tranne che di un'altra crisi: le piazze sono ancora piene dello stesso popolo che, come nel 2018 e nel 2019, chiede riforme reali e migliori condizioni di vita.
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