Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/10/2020, a pag.32, con il titolo "La cacciatrice di quadri rubati dal Reich" il commento di Tonia Mastrobuoni.
Tonia Mastrobuoni
Erika Jakubovits
Negli anni Settanta Alice Kantor decide di ritornare a Vienna, la città delle sue radici, delle sue cicatrici, della famiglia costretta a fuggire dalle persecuzioni antisemite. Prima dell’Anschluss nazista del 1938, il padre, Siegfried Kantor, è un principe del foro, presidente dell’associazione degli avvocati viennesi, grande collezionista d’arte. Ogni giorno Alice lo va a trovare nel suo studio, nell’elegante Geyerstrasse, e ogni volta vede lo stesso disegno di Gustav Klimt, forse il più prezioso della sua collezione di oltre 270 opere. Nel 1938, quando la famiglia deve lasciare l’Austria e si trasferisce a New York, quel patrimonio viene inghiottito dai saccheggi nazisti. Ma Alice non dimenticherà mai quel disegno di Klimt di quando era bambina. Quarant’anni dopo, passeggiando per le sale del museo Albertina, in una Vienna repubblicana e ancora poco abituata a fare i conti col passato nazista, la figlia del grande avvocato viennese riconosce il “suo” Klimt all’istante. Fa domanda perché le sia restituito. Ma l’Austria si rifiuta categoricamente di riconoscere che sia suo. Un dirigente del ministero della Cultura scrive una lettera riservata ma molto esplicita al cancelliere Bruno Kreisky. Se cominciamo a restituire una sola opera sottratta dai nazisti, sostiene, finisce che dobbiamo restituirle tutte. «Quello di Alice Kantor è stato uno dei miei primi casi, ma anche uno di quelli che mi hanno segnato molto».
Il più famoso quadro di Klimt rubato dai nazisti
Erika Jakubovits sorseggia un caffè e si lancia degli affettuosi “tu” col cameriere mentre racconta la sua straordinaria storia, che è anche la storia di una legge eccezionale. Nel 1998 l’Austria, unico Paese al mondo, vara un “Rueckgabegesetz”, una legge per la restituzione delle opere trafugate dai nazisti. E istituisce una commissione che indaga sulla provenienza dei casi sospetti e decide se restituirli ai legittimi proprietari o agli eredi. Nello stesso anno, Jakubovits comincia a lavorare per la Comunità ebraica, e inizia a fare lo stesso mestiere. Raccoglie le segnalazioni di migliaia di famiglie ebree scappate o cacciate dopo l’Anschluss e si mette a caccia delle loro opere rubate.
Quando Alice Kantor bussa alla sua porta, qualche tempo dopo, è una donna anziana. Ma non ha mai rinunciato a riconquistare il disegno di Klimt della sua infanzia. Negli anni ’70 l’Austria si era limitata, alla fine, a pagarle un’indennità. «D’un lato – racconta Jakubovits – sono stata costretta a dirle che avendo accettato l’indennità, non aveva più diritto alla restituzione. Ma siccome non mi rassegno mai, sono andata comunque al ministero della Cultura. E ho spiegato a un dirigente che quella era una storia crudele e ingiusta. Ho offerto, a nome della Comunità ebraica, di ripagare l’indennità con gli interessi, ma di consentire a quella donna di trovare la sua pace». La storia è finita bene e la legge sulla restituzione, che era stata approvata da poco, ha funzionato. Ma non sempre è andata così, e non sempre la testardaggine e l’instancabile lavoro di mediazione della “cacciatrice dei quadri” viennese ha avuto il risultato sperato. Jakubovits è stata coinvolta ad esempio in uno dei casi più famosi di quadri trafugati, immortalato in Woman in gold, pluripremiato film di Simon Curtis del 2015, con Helen Mirren nei panni di Maria Altmann, ebrea viennese fuggita durante la guerra lasciandosi dietro il patrimonio di quadri del padre e in particolare il famosissimo ritratto di Adele Bloch-Bauer di Gustav Klimt. Un quadro-simbolo dell’Austria, talmente rappresentativo dell’età dell’oro dello Jugendstil da scatenare un lungo braccio di ferro tra Altmann, ormai 95enne, e lo Stato austriaco. «In realtà non tutti i dettagli del film sono corretti. E una storia, in particolare, non è mai stata raccontata», rivela Jakubovits. «Nel 1999 ho invitato Maria Altmann a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum, a una conferenza. Lei aveva un appuntamento dall’allora ministra della Cultura. Che per i successivi due anni ha sempre smentito di averla mai incontrata. Altmann, che all’epoca aveva già più di 80 anni, le aveva proposto un compromesso. Il suo caso riguardava due ritratti, tra cui quello della sua amatissima zia Adele Bloch-Bauer, e tre quadri di paesaggi. Ebbene: Maria Altmann sarebbe stata disposta a cedere i due ritratti, riprendersi i tre paesaggi e accettare un’indennità per i quadri più famosi e più contesi». Ma lo Stato austriaco rifiutò, durante gli incontri con la legittima proprietaria, ogni proposta di accordo. «Quando era chiaro come sarebbe andata a finire, cioè in tribunale – continua Jakubovitz – io stessa ho vivamente consigliato alla ministra di non illudersi che i tribunali americani avrebbero dato ragione all’Austria. Non mi ha ascoltato, quel caso è finito davanti alla Corte suprema, che ovviamente ha dato ragione a Maria Altmann. Se l’Austria avesse accettato l’offerta di compromesso, quel quadro sarebbe ancora qui e non in una galleria di New York». Jakubovits sottolinea, però che quasi tutti i casi di restituzione in Austria si sono risolti senza particolari controversie. Anche perché i nazisti erano stati molto pignoli e avevano costretto gli ebrei dal 1938 a fare un inventario dettagliatissimo delle loro proprietà e dei loro patrimoni artistici: «Addirittura mandavano dei periti a stimare le opere d’arte». Ma non sempre la questione si può risolvere con un’indennità. «Ogni volta è l’aspetto più difficile da far capire. Non è dignitoso pensare di risolvere ogni problema con i soldi ».
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