Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 09/10/2020, a pag. 15, con il titolo "Il premier armeno: 'I turchi nel Caucaso contro il mio popolo. Riparte il genocidio' ", l'intervista di Pietro Del Re.
Pietro Del Re
Nikol Pachinian
«Il ritorno dei turchi nel Sud del Caucaso segna la ripresa del genocidio degli armeni d’un secolo fa, quando l’impero Ottomano massacrò un milione e mezzo di noi», sostiene il primo ministro Nikol Pachinian, l’ex giornalista d’inchiesta ed ex oppositore al regime corrotto e filorusso dell’Armenia che nel 2018 ha conquistato il potere organizzando pacifiche manifestazioni in tutto il Paese. «Incoraggiata dalla Turchia, l’aggressione dell’Azerbaijan contro gli armeni del Nagorno Karabakh è una guerra terrorista contro un popolo che lotta per la sua libertà », prosegue Pachinian, che ci riceve nello staliniano Palazzo del governo di Erevan, in una sala dal soffitto verde pistacchio e con boiserie di radica alle pareti.
Primo ministro, lei è rientrato poche ore fa dal fronte. Che situazione ha trovato in Nagorno Karabakh? «Gli azeri bombardano indiscriminatamente città e villaggi, colpendo soprattutto i civili, i quali sono costretti a lasciare le loro case e a trincerarsi nei rifugi. Al fronte, invece, ancora si combatte intensamente, ma al momento gli armeni resistono e gli azeri non possono rivendicare nessun successo strategico sul terreno».
Conferma il diretto coinvolgimento militare di Ankara? «Da dieci giorni i nostri soldati cadono sotto i razzi dei caccia F-16 turchi, gli stessi che ieri in una foto pubblicata dal New York Times si vedono parcheggiati all’aeroporto azero di Ganya. E poi, mentre tutti i grandi leader del pianeta chiedono un immediato cessate il fuoco, Ankara invita Baku a non far tacere le armi, dimostrando di essere al fianco degli azeri sia sul piano diplomatico sia su quello militare».
Che ne è dei terroristi siriani al fronte? «È ormai internazionalmente riconosciuto che la Turchia ha portato dei jihadisti dalla Siria per aiutare gli azeri. Perciò in quelle montagne si combatte anche una guerra contro il terrorismo, lungo una linea del fronte che vede opposte la civiltà alla barbarie. L’Armenia e il Nagorno Karabakh sono gli ultimi ostacoli all’espansionismo di Ankara, e se la comunità internazionale non interverrà in fretta, si ritroverà molto presto i turchi alle porte di Vienna, come accadde nel XVII secolo con gli ottomani».
Che cosa chiede alla comunità internazionale? «Anzitutto di riconoscere che il Nagorno Karabakh è stato attaccato dall’Azerbaijan, le cui truppe da un mese si stavano addestrando assieme a quelle turche. Deve poi rendersi conto del pericolo che rappresentano le migliaia di jihadisti che si trovano nelle zone di combattimento. Infine, deve riconoscere l’indipendenza della Repubblica del Nagorno Karabakh perché sarebbe il solo modo per impedire un nuovo genocidio degli armeni».
In questo conflitto Mosca si è distinta per il suo immobilismo. Crede che il presidente Putin interverrebbe se l’Armenia fosse aggredita dall’esercito azero? «La Russia ha degli obblighi nei confronti dell’Armenia per via di trattati di reciproca difesa in caso di un’aggressione da terzi. In questi trattati non rientra però il Nagorno Karabakh. Ma sono certo che se fossimo direttamente colpiti, Mosca onorerebbe i patti firmati con Erevan, come ha del resto dichiarato ieri lo stesso Putin».
Ma l’Armenia e il Nagorno Karabakh non sono una sola nazione? «Lo siamo etnicamente, perché nel Karabakh il 95% della popolazione è armena, perché parliamo la stessa lingua, abbiamo la stessa religione cristiana. Non c’è differenza tra chi vive qui e chi nelle montagne della repubblica che nel 1922 fu arbitrariamente attribuita all’ex repubblica sovietica dell’Azerbaijan musulmano da Stalin».
Il Nagorno Karabakh è da quasi trent’anni una repubblica indipendente. Ma perché nessun Paese al mondo, compresa l’Armenia, la riconosce come tale? «Noi armeni la riconosciamo de facto come indipendente e abbiamo appena intrapreso le trattative per farlo anche formalmente. Quanto alle altre nazioni dovrebbero agire in tal senso al più presto. Sarebbe un’elegante mossa diplomatica per fermare la guerra».
Che cosa sarebbe disposto a cedere il Nagorno Karabakh all’Azerbaijan in futuri, auspicabili negoziati di pace? «Il Nagorno Karabakh si è sempre detto disponibile a cedere parte dei suoi territori, ma l’Azerbaijan non ha mai voluto trattare. È accaduto l’ultima volta nel 2014, quando Baku si rifiutò di firmare un possibile accordo di pace perché avrebbe significato riconoscere il diritto all’autodeterminazione degli armeni del Nagorno Karabakh. Baku vorrebbe riannettere la repubblica secessionista, tornando allo statu quo di prima della guerra d’indipendenza del 1991».
Non deve essere facile per un pacifista come lei, che dice d’ispirarsi a Gandhi, Martin Luther King e Mandela, andare in guerra con l’elmetto e l’uniforme. «Quando c’è un attacco terroristico in corso sei costretto a reagire, e oggi, gli armeni del Nagorno Karabakh devono difendere il loro diritto alla vita. Certo, servirebbe anche un coinvolgimento internazionale, altrimenti la minaccia jihadista si diffonderà ovunque, perché sono certo che gli azeri non sono in grado di controllare gli islamisti che Ankara ha messo al loro fianco. Secondo la nostra intelligence, quando arrivano nei villaggi dell’Azerbaijan, come prima cosa i jihadisti cercano di impedire la vendita di alcol e di applicare la sharia».
Questa guerra la coinvolge anche nel privato. «Sì, perché mio figlio che ha vent’anni è appena partito al fronte da volontario».
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