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La Stampa Rassegna Stampa
30.07.2002 Quando anche Dennis Ross cambia idea


Testata: La Stampa
Data: 30 luglio 2002
Pagina: 25
Autore: un giornalista
Titolo: «Arafat, la maschera e il volto»
Dennis Ross,l'ambasciatore americano che ha guidato personalmente i negoziati per la pace in Medio Oriente sia sotto Bush padre che sotto Clinton e che, contro qualsiasi evidenza, ha sempre e comunque sostenuto Arafat, ha cambiato idea.
L'articolo che riportiamo è la sintesi di un pezzo scritto dallo stesso Ross in cui spiega le motivazioni di questo cambiamento.

Le idee in esso contenute possono essere un buon strumento da utilizzare per le e-mail da inviare ai media. Ovviamente citando la fonte: Dennis Ross.

PERCHÉ IL PRESIDENTE PALESTINESE È DIVENTATO UN OSTACOLO PER LA PACE IN MEDIO ORIENTE. UNA DURA REQUISITORIA E UNA STRATEGIA PER FARLO USCIRE DI SCENA

LO scopo di Arafat è una pace durevole con Israele? C'è da dubitarne. Nel corso del processo di pace di Oslo tutti gli interessati (palestinesi, israeliani, americani, egiziani, sauditi, gli altri stati arabi) erano egualmente convinti che Arafat desiderasse la pace con Israele. Pareva logico. In fondo, Arafat aveva infranto un tabù riconoscendo Israele, e suscitando le ire di chi in Palestina intendeva continuare nel rifiuto ad oltranza. Inoltre, egli aveva approvato cinque accordi, circoscritti o temporanei, con gli israeliani: pur avendo sempre evitato di sottoscrivere impegni fino all'ultimo momento, alla fine aveva accettato i necessari compromessi. Sfortunatamente, i progressi a breve termine nascondevano alcuni segnali inquietanti sulle sue intenzioni. Ogni accordo che il leader palestinese ha sottoscritto non prevedeva da parte sua nessuna concessione irrevocabile: egli non riteneva di doversi piegare a nessuna pretesa. Quel che è peggio, nonostante il suo impegno a rinunciare alla violenza, non ha mai davvero rinunciato a giocare la carta degli attentati. E' sempre pronto a esagerare l'importanza dei risultati ottenuti e al tempo stesso continua ad alimentare il risentimento. Durante il processo di pace di Oslo, egli non ha mai preparato l'opinione pubblica palestinese ad accettare il compromesso. Al contrario, l'ha mantenuta nell'illusione che si sarebbe infine ottenuto tutto quanto si desiderava, suggerendo implicitamente il ritorno alla lotta armata nel caso in cui i negoziati non avessero consentito successo pieno, cosa che era impossibile. Anche nei momenti migliori, Arafat ha continuato a tenere discorsi agli attivisti palestinesi in cui prometteva che la loro lotta, la jihad, li avrebbe condotti a Gerusalemme. Fin dall'inizio dei negoziati di Oslo, nel 1993, Arafat si è preoccupato solo di ciò che avrebbe potuto ricevere, e non di ciò che avrebbe dovuto concedere. Gli pareva difficile vivere senza una causa, una lotta, una rivendicazione, un conflitto che definissero la sua identità. Arafat non si è mai posto di fronte alle sue responsabilità, anche quando i suoi interlocutori hanno cercato di spingervelo. Messo infine alla prova con la proposta di Clinton, nel dicembre del 2000, Arafat fallì miseramente. Vi sono segni di un mutamento che indichino, oggi, la volontà di Arafat di prendere decisioni storiche per la pace? Io non ne vedo. Anche la sua improvvisa prontezza a vestire i panni del riformatore è il risultato delle forti pressioni esercitate dal suo stesso popolo e dalla comunità internazionale. Oggi, sta manovrando per evitare una vera riforma, non per metterla in atto. In materia di pace, egli non sembra pronto a riconoscere retrospettivamente l'opportunità creata dal piano di Clinton, né pare disposto a intaccare i miti su cui il movimento palestinese si regge.
Il mondo deve trattare per forza con Arafat perché è il leader eletto dai palestinesi? Non necessariamente. Le elezioni svolte nei territori nel 1996 hanno eletto Arafat alla carica di presidente dell'Autorità palestinese. E' probabile che le nuove elezioni del gennaio 2003 lo confermino. Ma la comunità internazionale non fa un favore ai palestinesi quando sottolinea l'elezione democratica di Arafat per giustificare il mantenimento delle relazioni con lui. E' importante ricordare che i sentimenti di rabbia diffusi nelle strade della Palestina prima dello scoppio dell'Intifada di Al-Aqsa erano rivolti non solo contro Israele ma anche contro la corruzione e l'inettitudine dell'Autorità palestinese. Ora che grandi opere di ricostruzione sono necessarie in Cisgiordania dopo le operazioni militari israeliane, i palestinesi chiedono cambiamenti. Chiedono elezioni, la certezza del diritto, l'indipendenza della magistratura, trasparenza, responsabilità, la riorganizzazione dei servizi di sicurezza in base a standard accettati e non secondo i capricci di Arafat; e soprattutto la fine della corruzione. Si potrebbe sostenere che il mondo deve trattare con Arafat perché egli è il simbolo del movimento palestinese, perché è l'unica personalità palestinese disponibile, e perché è l'unico che possa essere ritenuto responsabile del comportamento dei palestinesi. Questa è una spiegazione più onesta di quella secondo cui egli è il leader democraticamente eletto dei palestinesi. Tuttavia, il suo ruolo internazionale non viene soltanto da qui. Gli Stati Uniti hanno preso la decisione di trattare direttamente con Arafat nel settembre del 1993 quando, in base ai documenti di Oslo, accettò formalmente di rinunciare al terrorismo, di processare e punire qualsiasi palestinese che avesse violato tale impegno e di risolvere pacificamente qualsiasi controversia. Non ha mantenuto fede agli impegni. Solo i palestinesi possono scegliere il loro leader, ma il resto del mondo può decidere di non trattare con un leader che non rispetta gli impegni presi. I governi del mondo possono dire con chiarezza ai palestinesi che riconoscono le loro legittime aspirazioni, ma che queste aspirazioni possono essere sostenute solo con strumenti politici, non con la violenza, e che potranno essere realizzate soltanto quando i palestinesi avranno capi che si assumano le loro responsabilità in materia di sicurezza, e dichiarino che gli attentatori suicidi sono nemici della causa. Se poi si tratterà ancora di Arafat o di qualcun altro o di una direzione collettiva poco importa.
Arafat non può controllare tutti i militanti dei territori palestinesi? Può, ma non vuole. Arafat ha dimostrato, in passato, di essere capace di impedire la violenza, in particolare nella primavera del 1996 quando colpì con durezza Hamas; e anche nel corso del primo anno di governo di Ehud Barak, quando in Israele, fatto mai avvenuto prima, trascorse un anno senza che vi fosse una sola vittima di atti terroristici. Ma fin dall'inizio del processo di pace, Arafat ha dimostrato di chiaramente di preferire la cooptazione alla rottura, nei suoi rapporti con i gruppi estremisti. Non chiude mai le porte, non preclude mai le possibilità, non sa mai quando gli servirà avere al suo fianco i diversi gruppi di attivisti, a prescindere dalla loro ideologia o dai loro scopi. Questa strategia è stata certamente quella utilizzata nei suoi rapporti con Hamas e la Jihad islamica. Nel 1996, egli represse gli estremisti perché minacciavano il suo potere, non perché si erano resi responsabili di 4 attentati suicidi in Israele in 9 giorni. Anche allora la repressione, benché reale, fu limitata: Arafat non chiuse completamente la porta a nessuno dei due gruppi. Ogni volta che Arafat ha minacciato di colpirli, i gruppi estremisti hanno fatto marcia indietro. Ma dal settembre 2000, con lo scoppio dell'Intifada di Al-Aqsa, Arafat ha cessato di esercitare pressioni. Chi sostiene che Arafat non possa assumersi le sue responsabilità in materia di sicurezza a causa delle incursioni militari israeliane che hanno distrutto le strutture dell'Autorità palestinese, deve spiegare perché Arafat non ha agito nemmeno prima degli attacchi ordinati da Sharon. Dall'autunno 2000 alla fine della primavera 2002 non ha mai emesso inequivocabili mandati d'arresto, né tanto meno ordini perché cessassero le attività di chi pianificava, organizzava, reclutava, finanziava o attuava attacchi terroristici contro gli israeliani. Sia che Arafat diriga di fatto la strategia terroristica (gli israeliani ritengono che alcuni documenti di cui sono venuti recentemente in possesso lo provino) sia che si limiti a tollerarla, è irrefutabile che non ha fatto sforzi seri per arrestare la violenza. Tutto quanto si è detto non esime gli israeliani dal trovare un modo per soddisfare le loro legittime esigenze di sicurezza senza causare sofferenze ai palestinesi. Tenere i territori occupati sotto assedio significa infliggere una sconfitta a se stessi: si ottiene soltanto di esasperare la rabbia dei palestinesi e il loro desiderio di ripagare Israele con eguale moneta. L'esercito israeliano ha avuto successo nel porre tregua agli attacchi terroristici; oggi, Israele deve cercare una soluzione politica che nasca da questa tregua, e dare ai palestinesi un interesse a renderla più duratura.
È giunto il momento di imporre un accordo di pace ad Arafat e Sharon? Assolutamente no. Quasi due anni di conflitto, la spirale di violenza, il crescente senso di angoscia, e l'apparente incapacità delle due parti di fare alcunché, da sole, danno credito all'argomentazione secondo la quale oggi è giunto il momento di imporre una soluzione dall'esterno. Se vi fosse una soluzione imposta possibile, sarei pronto a sostenerla. Ma una soluzione imposta è illusoria. Nessun governo israeliano (non quelli di Ariel Sharon, o di Ehud Barak, di Binyamin Netanyahu, di Simon Peres) ha accettato o accetterà un risultato imposto. Paradossalmente, il governo israeliano potrebbe avere difficoltà ad accogliere, qualora fossero imposte dall'esterno, condizioni che sarebbero probabilmente ritenute accettabili se gli israeliani ritenessero di avere una controparte davvero interessata alla pace. Chi sostiene la necessità di imporre una soluzione sottolinea che nessun leader israeliano può prendere di sua iniziativa decisioni sgradevoli quali la rinuncia agli insediamenti, a gran parte della Cisgiordania e di Gaza e alla parte araba di Gerusalemme Est. Ma Barak era pronto a far ciò, e prima dell'Intifada di Al-Aqsa l'opinione pubblica israeliana era pronta a sostenerlo. In un viaggio recente in Israele, ho trovato accettazione e ampio consenso (che accomunano la sinistra e la destra) per una proposta simile a quella di Clinton, purché i palestinesi siano davvero pronti a rinunciare al terrorismo, alla violenza e al diritto a ritornare in Israele. Cercare di imporre una soluzione che il governo israeliano non accetterà (e nelle condizioni attuali il governo Sharon non accetterà di certo idee simili a quelle di Clinton) originerà soltanto forte opposizione. Anche se gli Stati Uniti potessero esercitare pressioni per convincere gli israeliani ad accettare un accordo imposto, esso potrebbe durare? Ne dubito. Arafat sarebbe senz'altro favorevole a un accordo imposto. Egli ha sempre preferito quell'opzione, che lo solleverebbe dalla responsabilità di prendere una decisione: egli potrebbe mostrare in apparenza di accettare. Ma inevitabilmente almeno una parte dei palestinesi si opporrebbe a un risultato imposto dalla comunità internazionale. Se si deve trarre una lezione dal passato, questa insegna che i palestinesi devono prendere delle decisioni e assumersene la responsabilità. Nessuna pace durevole potrà essere raggiunta fino a che i leader palestinesi non parleranno con chiarezza all'opinione pubblica, non resisteranno alla tentazione di accusare Israele o il mondo esterno di ogni male, non si assumeranno la responsabilità di prendere decisioni difficili e non difenderanno queste ultime di fronte agli oppositori.

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