Le nuove alleanze che ridisegnano il Medio Oriente Analisi di Robert D. Kaplan
Testata: La Repubblica Data: 04 ottobre 2020 Pagina: 15 Autore: Robert D. Kaplan Titolo: «Le nuove alleanze che ridisegnano il Medio Oriente»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 04/10/2020, a pag. 15, con il titolo "Le nuove alleanze che ridisegnano il Medio Oriente", l'analisi di Robert D. Kaplan, professore presso il Geopolitical Foreign Policy Research Institute di Philadelphia.
Robert D. Kaplan
L’imminente avvio dei rapporti diplomatici tra Israele e due Stati del Golfo — gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein — fa parte di un processo di cooperazione in materia di sicurezza che è stato inaugurato molti anni fa. Un dato, questo, che se da un lato riduce l’impatto dell’evento, dall’altro ne aumenta il significato e suggerisce che l’iniziativa di porre fine all’era degli scontri arabo-israeliani è destinata ad andare avanti e forse culminerà in un sovvertimento politico in Iran. Questa sembra essere la strada che il Medio Oriente si trova a percorrere. Sudan, Arabia Saudita, Oman e Kuwait sono alcuni dei Paesi arabi che pare stiano valutando la possibilità di avviare dei colloqui di pace con Israele. Uno o due di questi Paesi potrebbero cambiare idea, mentre l’Arabia Saudita — che pure sostiene il processo di normalizzazione regionale con Israele — potrebbe negare un riconoscimento ufficiale. Ma non importa: anche in assenza di documenti ufficiali, tutti questi Paesi hanno, in senso spirituale, posto fine alle ostilità con lo Stato ebraico. Diamo uno sguardo alla cartina geografica. L’alleanza tra Israele e Emirati gode di un accesso praticamente illimitato ai tre lati della penisola arabica: il Mar Rosso, il Mar Arabico e il Golfo Persico. L’unica sfida rimane quella rappresentata dal piccolo Qatar e dallo Yemen, caotico e dilaniato dalla guerra. Nel frattempo, la crescente presenza militare della Cina nel Gibuti e, potenzialmente, a Port Sudan, continuerà a essere un elemento neutrale rispetto a questa nuova iniziativa di sicurezza arabo-israeliana che si estenderà ben oltre la sfera navale, sino ad abbracciare ogni aspetto della sicurezza e dei sistemi di attacco e di difesa ad alta tecnologia. Il Medio Oriente sta attraversando un complicato processo di trasformazione. Per decenni, a partire dagli anni Sessanta, i regimi baathisti totalitari di Siria e Iraq avevano diretto il fronte del rifiuto a Israele. Ma quei due Stati, così come la Libia, adesso appaiono completamente devastati, mentre l’Egitto resta impotente, schiacciato com’è da una repressione debilitante e dal caos economico. Elementi palestinesi, shiiti e qatarini in Libano sono tutto quel che resta del fronte di opposizione arabo, che ormai è costretto a dover contare sul sostegno di due Paesi non arabi: Turchia e Iran. Dei due l’Iran è forse il più fragile. Mentre il leader neo-autoritario turco Recep Tayyip Erdo?an continua a operare in un contesto di parziale democrazia, tra partiti politici rivali e sindaci e giornalisti indipendenti, il regime dell’Ayatollah Ali Khamenei rappresenta una teocrazia radicale decisamente più impopolare in patria di quanto Erdogan non lo sia in Turchia. Il regime iraniano, inoltre, a differenza di quello turco, è legato al prezzo degli idrocarburi, che in generale (e a prescindere dalle sanzioni imposte dagli Usa) è sceso, anche se i recenti accordi di pace tra arabi e Israele mettono a rischio proprio l’appoggio dell’Iran nel Golfo. Infine la Turchia, per motivi geografici, culturali e di storia del ventesimo se colo, è uno Stato quasi europeo. Con tutta la stabilità che da ciò deriva. L’Iran, no. Verso la fine del 2019, ben prima che il governo desse prova di una gestione fallimentare della crisi del Covid-19, l’Iran è stato scosso da imponenti manifestazioni di protesta contro il regime. Il regime iracheno è sottoposto a crescenti pressioni politiche e viene considerato dal popolo palesemente illegittimo. La scomparsa del terrorista e mente della geopolitica Qassem Soleimani, assassinato agli inizi dell’anno dagli Stati Uniti di Trump, renderà più difficile all’Iran rispondere con atti di terrorismo o con la forza militare, come in passato. Secondo una famosa affermazione di Lenin: «Ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui accadono decenni». Dalla Rivoluzione del 1979 in poi in Iran non è accaduto praticamente nulla, così come a partire dal 1994, anno in cui Israele e Giordania inaugurarono i rapporti diplomatici, nulla è più accaduto tra Israele e i suoi vicini arabi. Poi, nel giro di qualche settimana, delle dinamiche che erano al lavoro già da decenni hanno prodotto due trattati di pace. Viene da domandarsi se e quando in Iran vedremo accadere decenni nel giro di qualche settimana. Non adesso, certo, ma forse nel corso del prossimo mandato presidenziale degli Stati Uniti. In breve: la battaglia per conquistare i cuori e le menti degli iraniani è iniziata all’indomani della nuova alleanza tra Israele e Paesi del Golfo arabo, poiché si tratta di due eventi legati inevitabilmente l’uno all’altro. Nei prossimi anni, a poter imprimere all’intera regione un vero cambiamento saranno le dinamiche interne all’Iran — un Paese di 84 milioni di abitanti, con un alto tasso di istruzione. Eppure, a dispetto dei drammatici eventi della scorsa settimana, a Washington c’è ancora chi, incapace di accettare la realtà dei fatti, adduce "le guerre infinite" come motivo per ritirarsi del tutto dal Medio Oriente. Nello stilare una classifica di regioni in ordine di importanza, un consigliere senior del candidato presidenziale Joe Biden citato dalla rivista Foreign Policy ha relegato il Medio Oriente al quarto posto "con grande distacco sul terzo" e preceduto da Europa, Indo-Pacifico e America Latina. In realtà le "guerre infinite" sono da anni sul punto di finire, mentre la presenza dei militari Usa continua a diminuire, passando da 132mila a 3mila in Iraq, da 100mila a 4.500 in Afghanistan, sino ad arrivare a meno di mille in Siria. Stiamo vivendo una nuova era, caratterizzata dalla cooperazione implicita ed esplicita tra arabi e israeliani, dall’espansione neo-ottomana della Turchia, e dalla crisi interna iraniana. Il tutto sotto l’insidiosa ombra economica dei cinesi, che anziché considerare il Medio Oriente al «quarto posto, con grande distacco », lo vedono sempre più come un elemento chiave: l’anello necessario a collegare con naturalezza la Via della Seta in Asia con quella in Europa. Per questo, sostenuti da investimenti da centinaia di miliardi di dollari, i cinesi stanno costruendo in tutta la regione porti e basi militari. Non è il momento di ritirarsi dal Medio Oriente, né di considerarlo una regione scollegata da tutte le altre. Al contrario: il Medio Oriente è parte integrante dell’Eurasia ed è quindi ora che gli Stati Uniti, durante il prossimo mandato presidenziale, contribuiscano a espandere e rafforzare la pace arabo- israeliana, allo scopo di arginare il neo-imperialismo della Turchia e indebolire ulteriormente il regime iraniano. Il tutto, nell’ottica di gestire con intelligenza l’ascesa della Cina nell’Indo-Pacifico.
— Traduzione di Marzia Porta
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