Gli armeni e il Nagorno-Karabakh Commento di Antonia Arslan
Testata: La Stampa Data: 29 settembre 2020 Pagina: 19 Autore: Antonia Arslan Titolo: «Il mio popolo perseguitato»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/09/2020, a pag.19, con il titolo "Il mio popolo perseguitato", il commento di Francesca Paci.
Antonia Arslan
C’è una nuova guerra dei trent'anni in corso alle porte orientali dell'Europa e ci racconta di un odio inestinguibile è una nuova guerra dei trent'anni in corso alle porte orientali dell'Europa e ci racconta di un odio inestinguibile che dura da oltre un secolo. Le origini affondano nella volontà di Stalin, all'epoca plenipotenziario di Lenin per il Caucaso, di indebolire l'Armenia, così come le altre oblast', le regioni autonome. Fu così che il Nagorno-Karabakh e il Nakhicevan, entrambe popolate per circa il 90% da armeni, passarono nelle mani dell'Azerbaijan. Con la caduta dell'Unione Sovietica il Nagorno-Karabakh iniziò a rialzare la testa, rivendicando una sorte differente da quella toccata ai fratelli del Nakhicevan, dove durante la dittatura comunista l'eredità armena era stata spazzata completamente via insieme alle chiese e perfino ai cimiteri, come si legge nel bel libro dello scrittore azero Akram Aylisli pubblicato in Italia dalla casa editrice Guerini «Sogni di pietra». Ci furono scontri con la parte azera, tensioni crescenti: nessuno avrebbe creduto che gli armeni sarebbero riusciti a resistere e invece, contro ogni previsione, ce la fecero. Da allora quella fascia di terra montuosa e abitata da una sparuta comunità di 150 mila persone è indipendente, non in virtù di un armistizio effettivo ma di una tregua sine die che, di fatto, ha congelato lo status quo senza però silenziare le pretese dell'Azerbaijan, irriducibile nell'ambire al reintegro territoriale. Per anni si sono moltiplicati i tentativi di mediazione, invano. Le cose sono andate avanti in sordina fino agli ultimi mesi, quando il governo azero, gestito da una famiglia autoritaria in modo pressoché monarchico, ha cercato la via d'uscita alla grave crisi sociale ed economica determinata dal crollo del prezzo del petrolio buttando la palla in tribuna, come sempre fanno le dittature: ci sono problemi interni? Si sposta l'attenzione del popolo verso l'esterno, la minaccia ai confini, la sollecitazione oculata che dura da oltre un secolo. Le origini affondano nella volontà di Stalin, di indebolire l'Armenia, così come le altre oblast', le regioni autonome, dell’orgoglio nazionale. Le operazioni sono cominciate nel 2016, piccole scaramucce, provocazioni. Poi un mese fa c'è stato uno sconfinamento in Armenia e successivamente delle vere e proprie manovre militari congiunte turco-azere in Nakhicevan, movimenti di truppe che erano evidentemente un avvertimento, un'esibizione muscolare in prospettiva di quanto sarebbe avvenuto e sta avvenendo nel territorio piccolo ma simbolico del Nagorno-Karabakh. Sullo sfondo di questo conflitto locale va inserito un secondo elemento, tutt'altro che irrilevante: l'ambizione neottomana di Erdogan che, sfruttando l'affinità etnico-culturale tra turchi e azeri, ha visto la possibilità di espandere ulteriormente la sua influenza geopolitica. E qui siamo. Sarebbe bello sentire la voce dell'Europa in questa vicenda. Temo però che invece, anche stavolta, prevarrà la timidezza: chi, nel vecchio continente, ha voglia di morire per il Nagorno-Karabakh? Nessuno volle morire per Danzica nel 1939, figuriamoci oggi per Step'anakert. E allora ci guardiamo allo specchio: noi armeni siamo soli. In questo momento l'unica potenza che realmente si contrappone alla Turchia è la Russia e così, pur sperando col cuore nell'aiuto di Bruxelles, sappiamo con la testa di poter contare al massimo su quello di Putin.
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