All’ora della merenda, quando il sangue sull’asfalto è stato pulito, una bambina esce dalla scuola all’angolo di rue Nicolas-Appert. «Mamma ci hanno detto che fuori c’era un pazzo». Delphine Caicedo, estetista nel quartiere, si fa raccontare dalla figlia le ore di confinamento, una parola che di questi tempi è associata al Covid ma che improvvisamente rimanda agli anni più bui del terrorismo islamico a Parigi, quel maledetto 2015, quando le continue allerte facevano scattare i protocolli di sicurezza nelle scuole. È successo di nuovo. Le sirene nel traffico impazzito, i boulevard che si svuotano, gli appelli della Prefettura: «Restate a casa». La piccola strada nel quartiere Bastille, ripiomba nel terrore. E così tutta la capitale. «Ho sentito le urla e ho capito» dice Luc Hermman, dirigente della società di produzione Première Lignes. Intorno alle 11.50, nella strada dove cinque anni fa è avvenuto l’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo, un uomo ha attaccato con una mannaia due persone, un uomo e una donna, dipendenti di Premières Lignes che ha gli uffici nell’ex sede del giornale satirico. Intorno a boulevard Richard-Lenoir, noto ai cultori dei romanzi di Simenon, tutto si ferma. I bar già poco frequentati si svuotano, quasi 32mila alunni delle scuole di quartiere sono in lockdown. I genitori, allertati da una mail dei presidi, seguono in diretta la caccia all’uomo che finisce dopo tre ore con l’arresto di due sospetti nel raggio di un chilometro dall’attacco. Il principale sospettato, fermato con una felpa macchiata di sangue accanto all’Opéra Bastille, non ha documenti. Dice di essere nato diciotto anni fa a Islamabad, Pakistan. Un paese dove c’erano state proteste contro la Francia a inizio settembre perché Charlie Hebdo aveva scelto di ripubblicare le vignette di Maometto alla vigilia del processo sugli attentati del 2015. Il ragazzo, arrivato in Francia tre anni fa, ha solo un antecedente giudiziario: è stato fermato un mese fa alla gare du Nord con un cacciavite. Non è chiaro il legame con il secondo uomo fermato, un algerino di 33 anni. Altre cinque persone sono state arrestate in serata dopo varie perquisizioni. Il luogo scelto e il momento - il processo in corso - convincono il procuratore antiterrorismo, Rémy Heitz, a farsi subito carico dell’indagine. Il ministro dell’Interno, Gérard Darmanin, non ha dubbito: «Si tratta, chiaramente, di un atto di terrorismo islamista. È un nuovo sanguinoso attacco contro il nostro paese, contro dei giornalisti ». I due feriti, aggiunge il procuratore Heitz, sono stati colpiti “per puro caso”. Erano scesi in strada per fumarsi una sigaretta in una giornata piovosa, in cui le conversazioni erano monopolizzate dal virus e dalle nuove restrizioni decise dal governo. Il terrorismo sembrava un ricordo lontano. E invece. «Ci siamo rifugiati sul terrazzo» continua il racconto Hermann. Anche nel gennaio 2015 i giornalisti della società di produzione si erano nascosti sul tetto, filmando la fuga dei terroristi, i fratelli Kouachi. «Ho chiamato gli stessi numeri di emergenza, e ora saremo seguiti dagli stessi psicologi » confida il produttore. «Potete per favore scrivere che Charlie Hebdo non lavora più qui?» chiede prima di riattaccare il telefono. La redazione del giornale lavora in un luogo segreto nella capitale. Un bunker. Il direttore Riss e molte altre firme continuano a vivere sotto scorta. Ieri erano nel tribunale del quartiere Batignolles. Al momento dell’attacco, i giudici stavano interrogando un investigatore dell’antiterrorismo sulla taqqqya, tecnica usata dai jihadisti. «Consiste nel fondersi nel paesaggio per non destare sospetti» spiegava l’agente dei servizi. Aggiungendo: «È molto difficile sapere cosa succede nella testa della gente». La sintesi di una certa impotenza davanti a un “terrorismo endogeno e proteiforme” come scrivono i rapporti dell’intelligence. Quando le breaking news appaiono sui telefonini all’interno del tribunale, con cecchini e agenti pesantemente armati all’esterno, qualcuno piange. «Non finirà mai» sbotta Marika Bet, responsabile risorse umane di Charlie Hebdo esfiltrata qualche sera fa dal suo appartamento parigino. L’indirizzo era stato diffuso sui social, con il solito diluvio di odio. A metà settembre c’era stato un nuovo messaggio di Al Qaeda contro il giornale satirico francese. Una vicina del palazzo, che chiede di restare anonima, ha visto l’assalitore: «Era inebetito, sembrava drogato» racconta a Repubblica. Su un muro di rue Nicolas-Appert un murale ricorda i vignettisti uccisi. Lo slargo è stato rinominato “Piazza della Libertà di espressione”. Due giorni fa un centinaio di media francesi, tra carta stampata, radio e tv, aveva pubblicato un appello comune per difendere la libertà di espressione proprio alla luce delle nuove minacce contro Charlie Hebdo. La Francia, dove ieri sono stati registrati altri 16mila contagi, non teme più solo possibili lockdown.
"Pelloux: 'Giusto ripubblicare le vignette. Alla libertà di opinione non rinunciamo' "
Patrick Pelloux
«È la prova che non bisogna abbassare la guardia sul rischio terrorismo in Francia malgrado l’epidemia Covid». Patrick Pelloux, storica firma di Charlie Hebdo , era amico fraterno di Charb, il direttore del giornale ucciso dai terroristi nel gennaio 2015. Medico al Samu, la cabina di regia per ambulanze e soccorso medico nella capitale, Pelloux era stato tra i primi a entrare nella redazione di rue Nicolas-Appert, trovandosi davanti all’orrore.
Anche questa volta ha organizzato i soccorsi? «La chiamata è arrivata al Samu e siamo riusciti a intervenire rapidamente. I feriti sono stati attaccati al volto con un coltello da macellaio. Per fortuna non sono in pericolo di vita».
Che cosa ha provato quando ha sentito parlare di un nuovo attacco in quella strada? «Non sono sorpreso. Da quando è cominciato il processo sugli attentati, a inizio settembre, c’è stato un nuovo proclama di Al Qaeda e il solito diluvio di odio sui social. Anche se sappiamo poco dele motivazioni dell’assalitore personalmente ho pochi dubbi».
È stato giusto ripubblicare le vignette su Maometto? «Si chiama libertà di espressione. I fondamentalisti islamici non devono cancellare i nostri principi».
Ha testimoniato al processo? «Dovevo farlo per me e per le vittime. Siamo rimasti in pochi sulle barricate».
Quali barricate? «La difesa della laicità. Mi aspetto di più dallo Stato e dalla classe politica. Charb si batteva per la laicità».
Il terrorismo era stato quasi dimenticato con la crisi del Covid? «Come dice l’ex giudice antiterrorismo Marc Trevidic spesso il maggior pericolo avviene nei periodi di calma apparente. E comunque le autorità avevano rafforzato la sicurezza intorno alla redazione negli ultimi giorni».
Non è sorprendente che un luogo così simbolico non fosse protetto? «La polizia è intervenuta subito, riuscendo a fermare l’autore e forse il suo complice. Charlie Hebdo non lavora più in quella strada dal 2015».
Da medico è preoccupato anche per la nuova ondata dell’epidemia? «Sono sempre in prima linea. È successo con Charlie , ora con il Covid. Facciamo attenzione senza cedere al panico. Il Covid non ci deve far dimenticare altre emergenze».
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