Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/09/2020, a pag.18 con il titolo "Massud il giovane. Il Panshir afgano ha un nuovo Leone" il commento di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
La deflagrazione è avvenuta qualche ora fa. Un’autobomba. Parcheggiata in doppia fila, in questa via di negozi del quartiere Taimani, nella parte nord di Kabul. E quando è passato il convoglio di Amrullah Saleh, il vicepresidente, famoso per il suo radicalismo antitalebano, il kamikaze si è attaccato al suo blindato e ha fatto esplodere tutto. Bilancio? Dieci morti. Quindici feriti. Il vicepresidente miracolato, ma con ustioni alle mani e al volto. E in un raggio di cento metri, un caos di lamiere contorte, pali della luce abbattuti, bombole di gas in frantumi; e nuvole di polvere, gente che urla e tossisce fuggendo dalle volute di fumo nero che lasciano temere una seconda esplosione e spingono le persone ad abbandonare la loro auto, bloccata comunque dall’ingorgo gigantesco che si è creato. Grazie, talebani. Con tanti saluti all’impegno preso, durante le trattative di pace che si sono aperte a Doha questa settimana, di cessare quelli che hanno l’ardire di chiamare «combattimenti». E la collera di Ahmad Muslem Hayat, che fu ufficiale capo della sicurezza del leggendario comandante Massud e che è tornato da Londra per proteggerci in quest’ultimo reportage: osserva i poliziotti indaffaratissimi, incoraggia i carri attrezzi che rimuovono con la gru i veicoli abbandonati, dà una mano a una brigata di soccorritori che sta estraendo dalle macerie un bambino dal colorito terreo, che respira ancora, ma come in un rantolo. «È sempre la stessa storia», brontola quest’uomo che ha attraversato quarant’anni di guerre afghane e di massacri, «sono troppo vigliacchi per rivendicare l’attentato; lo attribuiranno ad al-Qa‘ida, o ai pachistani del Lashkar-e-Taiba, o al gruppo Haqqani; ma sono tutti – lo scriva! – paraventi dei Talebani». Chi è talebano? Chi non lo è? Quali sono, in questa Kabul che crolla sotto il peso dei rifugiati e dove, da quando Trump ha annunciato la partenza degli americani, non si incrocia più uno straniero, i confini della zona grigia dove un uomo-bomba passa inosservato e sguazza come un pesce nell’acqua? Nessuno ne sa nulla. E ce lo ha detto proprio ieri sera Saad Mohseni, fondatore di Tolonews, la rete televisiva che è la portabandiera dell’informazione libera in Afghanistan e i cui studi all’avanguardia saranno uno dei primi bersagli dei Talebani, quando torneranno: carneficine come questa o come quella che il 12 maggio, nel quartiere di Dasht-e-Barchi, ha colpito una clinica di maternità di Medici senza frontiere facendo 24 morti fra cui 3 neonati, possono avvenire in ogni momento e in ogni luogo… Vedo, attraverso il vetro del mio veicolo, un uomo dallo sguardo febbrile che vedendoci fa il gesto di tagliarsi la gola. Un venditore ambulante vestito di stracci, sul marciapiede, davanti a un ammasso di cellulari, lucchetti e vecchi orologi, che fa un gesto come se puntasse un’arma contro il nostro convoglio. Un altro, poco più di un ragazzino, che quando si accorge che lo stiamo fotografando sputa nella nostra direzione. Il comandante Hayat, per tutto il tempo del nostro tragitto, non lascia mai il Kalashnikov che sta fra lui e l’autista. Poi, vedendo che il traffico è bloccato e non avanziamo più, propone di completare il tragitto a piedi.
Ahmad Massud. A destra il figlio Ahmed
È il 9 settembre, l’anniversario dell’assassinio, diciannove anni fa, di Massud. E sono venuto in questo quartiere del centro per cercare di ritrovare la casa dove nel 1992, quando era ministro della Difesa e il suo vecchio nemico, l’islamista Gulbuddin Hekmatyar, bombardava la città dalle colline, lo avevo accompagnato a visitare uno dei suoi muhajeddin feriti. Vado di casa in casa, guidato da un ricordo vago, come in un sogno, mostrando sul mio telefonino una vecchia foto con l’«eroe nazionale». Gli uomini di questo quartiere pashtun, man mano che ci allontaniamo dall’arteria principale e sprofondiamo nel dedalo di stradine polverose e malferme, dei cortili interni divorati dalle erbacce e poi, improvvisamente, dei vicoli ciechi cementati dove si ergono edifici moderni, sembrano meno ostili e curiosamente piuttosto contenti di questo «Massud Day» dove si celebra un tagico! «La casa che cercate la troverete qui, subito dopo il bazar», ci indica un vecchio che si ricorda un vicino di nome Mola Shams che il ministro Massud, «vestito con un grande mantello bianco», era venuto a confortare in pieno inverno, accompagnato da una scorta ridotta. «No, è laggiù», lo corregge il capo del quartiere, il kalantar, che siamo andati a svegliare in fondo al suo negozio di lapislazzuli appollaiato in cima a una scala di ferro traballante. Ma è un «venditore di anticaglie» che ci conduce, attraverso un labirinto di camicie, giubbe e pantaloni militari di ogni provenienza appesi a dei fili per i panni, fino a quella che fu la dimora di Mola Shams ma dove ormai sorge un centro commerciale. Non ho il tempo di saperne di più sulla sorte dei mujahid ferito, perché il quartiere è diventato impercettibilmente più inquietante. Ci imbattiamo, dietro una latrina a cielo aperto, in una testa di gatto decapitata che sembra guardarci con aria di sfida. Incrociamo degli adolescenti dallo sguardo impasticcato, delle donne ingabbiate nei burqa. E un informatore viene a dire al comandante Hayat che qua e là si comincia a trovare strano questo straniero che fa domande fuori luogo… Ma eccoci nel Panshir. I molti agenti nemici infiltrati nelle agenzie di sicurezza afghane hanno fatto trapelare la notizia del nostro spostamento. I social network filotalebani sono in assetto di guerra. Sui 100 chilometri che attraversano la piana di Shamali e che l’esercito afghano fatica a controllare, c’è il rischio di posti di blocco fasulli. E noi abbiamo chiamato Saad Mohseni, che ci aveva presentato il giorno prima, a casa sua, il ministro della Difesa, e ottiene in quattro e quattr’otto un elicottero. È lo stesso MI-17 che tanti anni fa ci aveva trasportati, insieme a Massud, da Dushanbe, la capitale del Tagikistan, a Jangalak, sulle rive del fiume Panshir, dov’erano i suoi avamposti? È la stessa carlinga troppo rigida che durante le turbolenze trema in tutta la sua lunghezza. Forse sono gli stessi uomini che provano due volte le turbine prima di decollare e prendono posto, in volo, dietro le mitragliatrici puntate sui rigonfiamenti del terreno che, nella bruma, possono essere postazioni nemiche. È lo stesso posto di pilotaggio, con lo stesso cuneo fermaruote in legno che viene tirato su all’ultimo minuto e dove si era messo a sedere Massud, e si era messo a pregare quando avevamo passato i colli dell’Hindukush. E quello che non è cambiato, all’atterraggio, è questo paesaggio di case cubiche, questi forni di mattoni, questi frutteti colorati e circondati da muretti, questo fiume Panshir, scintillante negli ultimi vapori del mattino, insomma questo villaggio di Jangalak dov’ero arrivato tanti anni fa con Ahmed Massud e dove mi attende… Ahmad Massud. Eh già! Ahmad. Suo figlio. Bisognerebbe dire il suo sosia.
Quel bambino di 9 anni che ricordo mentre si impadroniva, per sistemarle nella biblioteca di famiglia, delle Memorie di guerra di De Gaulle che avevo portato a suo padre e che ventidue anni più tardi, con il suo pakol, il tipico cappello afghano, la sua barba curata, i suoi occhi gravi e a mandorla, sembra la sua reincarnazione… Gli faccio raccontare quel padre leggendario e martire a cui assomiglia in modo inquietante. Mi dice che sognava di essere, diventato uomo, il più prode dei suoi prodi… Che nell’attesa si accontentava – ma con quanto amore! – di portargli il tè la sera e di aiutarlo, quando rientrava dal fronte, a slacciare le scarpe… Mi racconta di questa casa che Massud ha costruito, ma dove ha avuto il tempo di passare solo le ultime due settimane della sua breve vita… Di questo giardino che ha concepito e piantato con un’arte degna dei giardini moghul di Babur… Della fobia che aveva degli insetti e di quello strano mattino, alla fine, quando il fiume aveva rotto gli argini, in cui lo sorpresero a raccogliere degli scarabei che stavano annegando per posarli sopra dei ciottoli… Dell’ultima cena… Dell’ultima grappa d’uva che volle, il giorno prima della sua ultima partenza, degustare con il suo ragazzo… L’ultima, veramente, padre? Vuoi dire l’ultima della stagione? Sì, rispose il padre per tranquillizzarlo. Ma il suo animo di bambino capì benissimo che voleva dire un’altra cosa… Avvertì quel modo, che gli si addiceva così poco, al momento dell’ultimo addio, di tornare sui suoi passi, di ripartire, di tornare ancora… E riguardo all’istante della morte, di cui non ho mai letto un resoconto realmente affidabile e che mi racconta mentre attraversiamo il ponte dove avevano l’abitudine di andare a camminare: il suo bel viso crivellato dalle schegge della bomba, il suo petto stritolato, un occhio cavato, una gamba tagliata in due; contrariamente a quello che è stato detto, quindi, morto quasi sul colpo, tranne per il fatto che ebbe la forza ultima e sovrumana di chiamare due guardie del corpo risparmiate dall’esplosione e ordinare loro di prenderlo sotto le ascelle e tirarlo su, e lì, in piedi per l’ultima volta, rese l’anima recitando la sura dei morenti. Ma Massud il Giovane, nonostante la sua straordinaria devozione filiale, non mi ha invitato per commuoversi sui racconti del passato. E andiamo in direzione di Abshar, 70 chilometri più a est, dove i Talebani hanno lanciato la settimana scorsa un attacco a sorpresa, senza precedenti, contro il Panshir. Lo scopro, in mezzo ai suoi comandanti ormai in stato di allerta e alcuni dei quali sono abbastanza vecchi da aver servito suo padre. Osservo, mentre ispeziona le loro posizioni e li esorta a resistere, l’autorità che si sprigiona dal suo viso ancora paffuto. Lo sento spiegare ai suoi uomini che non ha voluto né entrare al Governo né partecipare a questi strambi negoziati di pace, perché il suo posto è fra loro, alle porte di quello che fu e deve assolutamente restare l’inviolabile santuario dell’Afghanistan libero. E quando, in fondo a una gola vertiginosa dove si sentono soltanto i campanacci di un gregge in lontananza, arriva il momento della gara di tiro con fucili d’assalto che suo padre aveva l’abitudine, anche lui, di proporre ai suoi invitati, bisogna arrendersi all’evidenza: il bersaglio è un sassolino bianco sistemato sopra uno spunzone di roccia di pietra ocra a 70 metri di distanza, nella zona d’ombra creata dalla piega della montagna; e se le mie performances non sono affatto migliorate da vent’anni a questa parte, lui punta a tre riprese e a tre riprese, fra le acclamazioni della sua scorta, centra in pieno il sassolino bianco.
Ahmad Massud è un cecchino infallibile. Ha l’arte e, forse, il sangue freddo, dei guerrieri immemorabili delle montagne afghane. Senza parlare del fatto che questo giovane letterato che dopo l’assassinio del padre fu esfiltrato verso l’Iran e poi, in tutta fretta, verso Londra, è stato uno dei brillanti cadetti dell’accademia militare reale di Sandhurst, dove viene formata, da due secoli, l’élite delle forze armate britanniche… Poi andiamo al mausoleo di marmo dove riposa suo padre e dove lo attendono altri comandanti, ma soprattutto, in quel primo venerdì dopo il «Massud Day», delegazioni venute da Kandahar e da Jalalabad per celebrare la memoria del Leone del Panshir. E là, di fronte a centinaia di contadini-soldati con le tuniche che luccicano sotto la luce accecante, poi in mezzo alle carcasse di carri armati che ricordano uno dei colpi di mano più audaci della guerra dei mujaheddin contro i sovietici, mi accorgo di un altro volto ancora di questo giovane prodigioso. Eloquente. Oratore ispirato e lirico. Che parla non più in nome dei suoi fratelli panshiri, ma di tutta la nazione afghana. E che saluta la Francia, che nel momento più oscuro della sua notte non ha mai abbandonato questo popolo di vasai, di carovanieri, di pastori e di poeti. «Vent’anni sono trascorsi», dico io quando lui mi passa la parola. «Torno, con una stretta al cuore, in queste montagne che piangono ancora un comandante il cui vile assassinio, non lontano da qui, inaugurò il nuovo secolo come un prologo funebre. Ma scopro che le braci della libertà ardono ancora in questa valle. Comprendo che grazie ai suoi compagni di ieri, ai suoi figli di oggi e a questo figlio di sangue e di spirito che mi fa l’onore di accogliermi qui, presso di lui, il ricordo del comandante continua ad abitare queste montagne. Grazie ad Ahmad Massud, che porta degnamente questo nome, di mantenere le promesse di suo padre. Grazie di essere la stessa sentinella valorosa nel cuore di questa terra il cui nome resterà inciso nel libro del coraggio. Domani, comunque andrà a finire il faccia a faccia con i Talebani, qualunque saranno i frutti amari del compromesso con i pazzi di Dio e per quanto sconfortante possa apparirvi il tradimento dei vostri alleati, che hanno scelto di perdere questa guerra e sacrificarvi, io testimonierò che qui, ai piedi di queste montagne, la battaglia per la libertà è ripresa. Un nuovo Leone del Panshir è nato. Ed è una bella notizia, in questi tempi cupi, per gli uomini di buona volontà ». E poi torniamo nella sua casa d’infanzia, dove prendiamo un ultimo tè sui lunghi divani granata, di fronte al torrente dove meditava suo padre. «Amo solo tre cose al mondo», attacca lui. «I libri. I giardini. E poi l’astronomia, che ho imparato, prima della Sandhurst, al King’s College di Londra e che mi ha dato il gusto, ogni sera, di guardare il cielo e le sue costellazioni. Questo per dire che non ero, contrariamente a quello che lei ha appena detto al mausoleo, tagliato per l’azione politica. Ma qualcuno doveva raccogliere il testimone. Non bisognava lasciare che si spegnesse la speranza che incarna la gloria di mio padre. Allora sì, per questa ragione, e per questa ragione solamente, sono pronto a prendere il suo posto… ».
Prima di andarmene, gli faccio tre domande: se nello statuto del movimento che ha creato sia pronto a scrivere che essere il figlio di suo padre non è sufficiente e che la sua corona non è sua ma del popolo dei mujaheddin; se sia disposto ad annunciare che chiede i voti della nazione afghana soltanto per lanciare le riforme di cui i grandi feudatari del Paese, per il momento, non vogliono sentir parlare, e che dopo tornerà a decifrare i segni delle stelle; e se ci sono dei principi (a cominciare dai diritti delle donne) su cui nessun negoziatore di pace potrà transigere, fintanto che lui sarà in vita. A queste domande risponde di sì. Di sì ogni volta. Lo fa con quel timbro di voce bello e chiaro che aveva suo padre quando accettò, ventidue anni fa, nonostante i combattimenti si stessero avvicinando, il mio invito a venire a Parigi. È davvero così? Massud II sarebbe dunque un nuovo Cavaliere deciso a dare scacco matto a signori della guerra che ormai, di fronte al pericolo talebano, sono soltanto i fantasmi di quel che erano? Possibile che in quest’ultimo scontro in cui si gioca il nostro destino ci sia un protagonista, almeno uno, che dica no all’oscurantismo, alla legge dei massacri e allo spirito di abdicazione? È quello che spero.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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