Chi era Czesław Miłosz?
Recensione di Diego Gabutti
Aleksander Wat, Il mio secolo. Memorie e discorsi con Czesław Miłosz, Sellerio 2013, pp. 724, 28,00 euro, eBook 18,99 euro.
Poeta polacco, in giovinezza dadaista e futurista, amico di Viktor Šklovskij e di Vladimir Majakovskij, nonché ebreo convertito al cattolicesimo dopo aver visto «il diavolo della storia» (corna, piè caprino, forcone e tutto) in un’allucinazione da fame nera che lo fulmina in una prigione sovietica, Aleksander Wat racconta a un altro poeta polacco (il Premio Nobel Czesław Miłosz, autore nel 1953 d’un libro di culto sulla natura del sistema comunista e dei suoi derivati, La mente prigioniera) la storia del suo calvario su per i tornanti del secolo breve. Libro bello e terribile, pubblicato nel 1977 in Inghilterra e tradotto in italiano con quarant’anni di ritardo, quando i genocidi operati dal comunismo ai danni dei popoli di mezzo mondo sembrano essersi dimenticati tutti, e per gli ex e post comunisti è come se non ci fossero mai stati, Il mio secolo è un lungo e angosciato monologo in forma d’intervista.
Miłosz, che alle traversie dell’itellighenzia polacca avrebbe dedicato due grandi libri, Trattato poetico, Adelphi 2012, e Abbecedario, Adelphi 2011, vorrebbe sentire da lui anche storie di poeti e artisti polacchi negli anni venti, prima e dopo che la maggior parte di loro passassero dall’avanguardia al realismo socialista (al modo di Paul Éluard, l’ex surrealista, che come racconta Wat «rilasciò un’intervista alla stampa in cui affermava: quando morì mia moglie scrissi poesie tristi e tragiche, piene di disperazione. Ma il compagno Thorez mi disse che non si deve intossicare l’anima del proletariato con la tristezza. E aveva ragione. Ora ho rielaborato i versi finali di quelle poesie»). Miłosz insiste, ma Aleksander Wat non ha tempo per i poeti. Ossessionato dal comunismo, stremato dalla depressione, incapace di concentrarsi sulla scrittura e rinchiuso «entro le quattro mura del suo dolore», l’ex comunista Watt, «direttore del principale periodico del comunismo polacco tra le due guerre», spiega che «fu nella prigionia comunista che giunse il mio pieno ravvedimento e da allora in poi – in carcere, in esilio, in Polonia sotto il comunismo – non mi permisi più di dimenticare il mio principale dovere: pagare, pagare il mio conto per quei due o tre anni di insania morale».
Per Wat, come per Solzenycin dopo di lui, c’è il Male dietro le utopie cannibali del XX secolo: c’è il «diavolo del comunismo» (e quello dell’hitlerismo). Eppure, le rivoluzioni che hanno trascinato l’umanità nell’abisso e nel disordine morale continuano a contare su discepoli e banalizzatori (anche insospettabili, come quando un altro polacco, Karol Wojtila, parlò del comunismo come del «male necessario») che assolvono gli utopisti dai loro «generosi errori». Secondo Th.W. Adorno, maestro di pensiero negativo, non si possono più scrivere poesie dopo Auschwitz. Secondo Wat, nel secolo di Auschwitz e Kolyma, anche soltanto parlare di poeti è un lusso, benchè qua e là, nel Mio secolo, accenni a qualcuno di loro. A Boris Pasternak, per esempio, che nel legare con uno spago la valigia di Marina Cvetaeva, in fuga da Mosca e diretta in Tatarstan, «le lanciò un’occhiata e disse: “Ecco una corda con cui all’occorrenza ci si può impiccare”». Miłosz dedica a Wat, nato nel 1900, morto nel 1967, alcune pagine d’un altro suo libro, La testimonianza della poesia, Adelphi 2013, dove ricorda Mój wiek, il mio secolo, come «il racconto d’una vita tanto ricca che potrebbe valere per dieci, e della singolare dipendenza d’un singolo destino dalle filosofie del nostro secolo». In futuro – quando le ceneri del Novecento si saranno definitivamente spente e nessuno dovrà più temere di scottarsi toccandole – non ci sarà bisogno di vedere il diavolo per «vedere il diavolo operare nella storia del XX secolo».
Diego Gabutti