Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/09/2020, a pag. 1, con il titolo "Medio Oriente la nuova rotta dell’America", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
L’ accordo di pace fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein ha coinciso nelle prime due settimane di settembre con il ritiro di importanti contingenti Usa dall’Iraq e l’inizio della trattativa di Doha fra Stati Uniti e taleban afgani, disegnando i contorni di un processo di portata regionale: l’accelerazione del riassetto americano in Medio Oriente in risposta alle mosse, efficaci ed aggressive, compiute dalla Russia negli ultimi cinque anni. Sin dall’insediamento alla Casa Bianca nel gennaio 2017 il presidente Donald Trump ha chiarito di voler ritirare le truppe dal Medio Oriente portando a termine la decisione presa dal predecessore Barack Obama — in una rara condivisione di obiettivi fra leader molto diversi fra loro — ponendo fine agli interventi militari decisi da George W. Bush in Afghanistan nel 2001 ed Iraq nel 2003 a seguito degli attacchi dell’11 settembre. Obama decise nel 2011 il ritiro di gran parte delle truppe dall’Iraq e nel 2014 la fine della missione di combattimento in Afghanistan, ma per porre termine a ciò che resta della presenza militare in questi Paesi Trump deve far coincidere l’uscita di scena degli ultimi reparti con la genesi di un nuovo assetto strategico capace di proteggere gli interessi americani nella regione che va dal Canale di Suez al Khyber Pass. Ovvero, servono degli accordi di sicurezza capaci di rimpiazzare i soldati americani nel Grande Medio Oriente. Come riassume Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all’Onu, «è una situazione simile al Dopoguerra in Europa quando il ritiro delle truppe americane portò alla nascita dell’Alleanza Atlantica». Ebtesam al-Ketbi, presidente dell’Emirates Policy Center, lo dice con chiarezza: «La normalizzazione dei rapporti con Israele si basa sulla genuina volontà di collaborare per creare un nuovo sistema di sicurezza» e quindi «il trattato di pace avrà conseguenze nel Golfo, nell’Asia del Sud e nel Mediterraneo Orientale». E David Makovsky, veterano del Washington Institute sul Vicino Oriente, aggiunge: «Al momento Israele, Emirati e Bahrein hanno come comuni nemici l’Iran degli ayatollah e l’Islam politico dei Fratelli Musulmani ma la convergenza va nella direzione degli interessi di lungo termine degli Usa nella regione». Se durante la Guerra Fredda la Nato servì per contenere la minaccia sovietica verso l’Europa, ora l’alleanza israeli-sunnita nasce in Medio Oriente per contenere l’Iran titolare di un programma nucleare, regista di milizie e rivolte sciite in più Paesi arabi e contrario all’esistenza di Israele. Da qui la convergenza fra Emirati, Bahrein e Israele che include però negli accordi anche economia, scienza, ricerca e tecnologia perché proprio come nel caso della Nato, la Difesa si propone di trainare lo sviluppo collettivo.
Questi sono i motivi per cui Mike Pompeo, Segretario di Stato Usa, ha dedicato tempo e risorse all’Accordo di Abramo e questo è sempre il motivo per cui Joe Biden, candidato democratico alla Casa Bianca, ha precisato che se diventerà presidente consoliderà l’intesa raggiunta da Trump, tenterà di ottenere da Teheran un accordo sul nucleare più rigido di quello di Obama e manterrà l’ambasciata Usa a Gerusalemme. Insomma, la direzione di rotta dell’America in Medio Oriente è bipartisan. Se a tutto ciò aggiungiamo che in Bahrein c’è la sede della Quinta Flotta della Us Navy responsabile della sicurezza delle rotte nel Golfo non è difficile arrivare alla conclusione che stiamo assistendo ad un cambio di scenario in Medio Oriente: nel momento in cui Washington prova a portare a compimento i ritiri da Iraq e Afghanistan, getta le basi di un’alleanza per la sicurezza in Medio Oriente che nasce attorno all’Accordo di Abramo e punta a coinvolgere tutti i Paesi arabo-sunniti. Si spiegano così il sostegno garantito da Egitto e Giordania, il rifiuto opposto dalla Lega Araba alla richiesta dell’Autorità nazionale palestinese di denunciare gli accordi di pace, le pressioni di Washington sull’Arabia Saudita per aderire in fretta e la raffica di indiscrezioni sui Paesi che sarebbero prossimi a normalizzare i rapporti con Israele: Oman, Sudan, Ciad, Mauritania e Isole Comore con Tunisia e Marocco in seconda fila. È un vortice di contatti che vede protagonista proprio Mike Pompeo, che a fine mese arriverà in Vaticano ospite di un evento sulla libertà religiosa che è — assieme a sicurezza e sviluppo economico — il terzo pilastro della possibile nascitura alleanza, destinata a proteggere i diritti delle minoranze e dunque anche dei cristiani che vivono in Medio Oriente e Nordafrica. Non a caso gli Emirati Arabi Uniti, protagonisti del patto con Israele, accolsero Papa Francesco nel 2019 ad Abu Dhabi per uno degli eventi di dialogo interreligioso più importanti della storia recente. Il coinvolgimento dei cristiani d’Oriente nei nuovi equilibri in Medio Oriente conferma la volontà di Washington di trasformare l’Accordo di Abramo nella cornice in cui risolvere la questione palestinese, sulla base degli accordi di Oslo del 1993 che prevedono “due Stati e due popoli”. È uno scenario in totale movimento che vede la Russia di Vladimir Putin per la prima volta sulla difensiva in Medio Oriente da quando, nel settembre 2015, intervenne con le truppe in Siria riacquistando un ruolo strategico nell’intera regione.
Non a caso il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, con buoni rapporti tanto a Gerusalemme che ad Abu Dhabi, ha scelto la prudenza evitando di criticare frontalmente le intese siglate a Washington. La Turchia di Recep Tayyip Erdogan invece ha reagito con irritazione all’Accordo di Abramo perché ostacola il proprio disegno regionale che fa leva sull’Islam politico dei Fratelli Musulmani, ha nel Qatar l’unico alleato nel Golfo e considera la questione palestinese il tema ancora prioritario nei rapporti con Israele. In tale cornice resta da vedere quale approccio avrà la Nato ad una nuova architettura di sicurezza israelo-sunnita in Medio Oriente. L’Alleanza ha nel Mediterraneo uno scacchiere di crescente importanza, dai migranti al gas fino alla lotta al terrorismo, e le fibrillazioni di queste settimane fra Atene ed Ankara lasciano intendere la necessità urgente di avere un approccio comune a quanto sta maturando in Medio Oriente. È possibile che anche di questo parlerà Pompeo con il premier Conte e il collega Di Maio negli incontri romani a margine della visita vaticana.
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