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Il sorriso di Pol Pot
Recensione di Diego Gabutti Peter Fröberg Idling, Il sorriso di Pol Pot, Iperborea 2010, pp. 336, 17,00 euro, eBook 9,49 euro. Jan Myrdal aveva tifato per il Grande balzo in avanti, poi per la rivoluzione culturale, e adesso tifava per la «Kampuchea democratica», ex Cambogia, che si sarebbe rivelata in breve (anzi s’era già rivelata) come la più mostruosa dépendance del regime maoista. Era il 1978. Scrittore e sociologo svedese, marxista psichedelico, Myrdal era considerato un’autorità in fatto di sottosviluppo e d’economie del Terzo mondo. Amico dei leader cinesi, gradito ai khmer rossi, che aveva conosciuto nella Parigi presessantottesca, dove molti di loro (compreso Saloth Sar, il futuro Pol Pot) erano stati studenti, nessuno era più adatto dell’autore di Rapporto da un villaggio cinese e di Un villaggio cinese nella rivoluzione culturale (entrambi tradotti da Einaudi negli anni beati) per guidare la delegazione del gruppuscolo maoista conosciuto come Associazione Svezia-«Kampuchea democratica» in un viaggio ufficiale nel paradiso dell’eguaglianza, che la stampa imperialista e masse sempre più vaste di profughi fasulli (profumatamente pagati da revisionisti sovietici e capitalisti sfruttatori per testimoniare il falso) accusavano di genocidio, niente meno. Myrdal e gli altri pellegrini maoisti non se la bevevano, naturalmente. Ma quale genocidio? Ma dove? Ma quando? Tutte calunnie, propaganda borghese. Forse qualche intellettuale borghese non era riuscito a rassegnarsi ai rigori del lavoro manuale; forse qualcuno era morto (gl’incidenti capitano); e ci sarà stata magari anche qualche esecuzione (considerato che le rivoluzioni, dopo tutto, non sono pranzi di gala). Ma non più del lecito, assicuravano maoisti svedesi e cambogiani (anzi, «kampucheani). Gentili, non violenti, educati, generosi e al servizio del popolo, i guerriglieri khmer rossi che nel 1975 si erano impadroniti della Cambogia (cambiandone subito il nome, vai a capire perché) erano amati sia dai contadini, nel cui nome il partito (anzi l’Organizzazione, Bersani da noi diceva la Ditta) aveva preso il potere, che dagli ex abitanti delle città (tutte saccheggiate e subito sfollate perché troppo futuriste e decadenti, troppo tentacolari). Destinati ai lavori forzati, i parassiti che per secoli erano vissuti nelle città scansando il lavoro dei campi non potevano che essere grati a Pol Pot che, al caritatevole scopo di rieducarli, li aveva convinti a lavorare dodici ore al giorno (bambini compresi) in cambio di zuppe di riso nelle quali non galleggiava un solo chicco di riso (stesso menù anche per i contadini propriamente detti). Come i viaggiatori di cui raccontava le avventure Tom Hollander in un classico del turismo comunista, Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione sovietica, Cina e Cuba, il Mulino 1988, Myrdal e gli altri maoisti svedesi viaggiarono da un Villaggio Potëmkin all’altro, tra fondali di cartone e attori che si fingevano contadini.
Peter Fröberg Idling racconta tutta la storia (e la storia del gruppo dirigente khmer, della guerra americana e vietnamita, ma soprattutto gli orrori del massacro consumato dai maoisti cambogiani ai danni del loro stesso popolo) nel Sorriso di Pol Pot, un libro già uscito da un po’, ma prezioso, e che dunque segnalo lo stesso. Myrdal e gli altri furono vittime d’un raggiro o furono complici del raggiro? Credevano nel ridicolo teatrino allestito dall’agit prop di regime ad usum di registratori e videocamere della delegazione svedese, o sapevano benissimo che era tutta una montatura? Diciamo che non fecero troppe domande e che la vista d’un intero popolo affamato (quel che ne restava) non tolse loro l’appetito. Passati quasi quarant’anni, alcuni membri della delegazione hanno accettato di parlare con Fröberg Idling spiegando di non essere orgogliosi della parte recitata in quei giorni, mentre intorno a loro morivano milioni di persone, assassinate dai khmer rossi, guerriglieri adolescenti fanatizzati dall’Organizzazione. Altri non hanno rilasciato alcuna dichiarazione: è passato tanto tempo, e chi volete che si ricordi ancora d’un viaggio del 1978, due o tre ere storiche or sono. Jan Myrdal, da parte sua, non si rimangia nulla, neanche una parola. Venti, trenta, quarant’anni dopo, Mydal continua a stravedere per Pol Pot e a tessere l’elogio del Presidente Mao. (Oggi, poi, a dimostrazione che il lupo perde il pelo eccetera, Myrdal stravede anche per la guerriglia «naxalita» dei maoisti indiani, di cui ha raccontato le gesta in un reportage del 2010, Stella rossa sull’India, Zambon 2011).
Non si rimangia una parola nemmeno Noam Chomsky, campione mondiale di radicalismo e negazionismo chic, che all’epoca affiancò Myrdal e gli altri delegati svedesi nell’opera di disinformazione. E Pol Pot, il grande macellaio? Morto nel 1998, poco dopo aver decretato la morte dell’intera famiglia (donne e bambini compresi) d’un suo stretto collaboratore accusato di tradimento e doppio gioco, il segretario generale della Ditta cambogiana è stato «cremato su una pila di gomme d’auto e rifiuti». Amen.
Diego Gabutti |
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