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La Repubblica Rassegna Stampa
11.09.2020 Un appello per Lesbo
Di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 11 settembre 2020
Pagina: 12
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Tra gli spettri di Lesbo senza più pane»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/09/2020, a pag.12 con il titolo "Tra gli spettri di Lesbo senza più pane" il commento di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy
A Lesbo, un'atmosfera di conflitto - intervista a Daphne Vloumidi  [intervista]

Su un muro restato in piedi nel campo dei fantasmi qualcuno ha scritto: “Libertà di movimento”. Lo leggi attraverso il filo spinato e una rete di ferro annerita dal fuoco. I pochi rimasti qui non sanno dire se la mano che ha tracciato quelle parole con lo spray sia una di quelle che hanno dato fuoco a Moria martedì sera. In ogni caso quelle fiamme ai 12mila fuggiti dal campo di Lesbo - il più grande d’Europa - non hanno regalato né libertà né movimento. Il sole li condanna all’immobilità, si difendono con coperte e buste di plastica legate al guardrail della strada tra Moria e Kara Tepe, un altro centro considerato il volto umano dell’accoglienza ai migranti. Cammini per centinaia di metri e da quei teli vedi solo spuntare scarpe o piedi nudi. Uomini, donne, bambini. E ancora bambini. È come se qualcuno avesse tolto l’audio. Sono fermi e muti, aspettano un verdetto. O forse hanno solo troppa fame e troppo caldo per muoversi e parlare. Mi avvicino a una delle coperte. Ecco le mani di una ragazzina. Ha lo smalto rosa su un’unghia e azzurro sulle altre, come le mie bambine quando giocano a fare le ragazze. Le faccio i complimenti. Lei sorride, mi dice che si chiama Fatimeh e che sa un po’ di inglese, lo ha imparato dai volontari a Moria. Ha undici anni e viene dall’Afghanistan. «Ma là – giura la madre usando la figlia come interprete non ci torniamo». Ora che vuoi fare? Smette di guardarmi. E anche di sorridere. La gente scappata da Moria si è accampata come poteva su questa strada. All’inizio erano fuggiti in seimila, poi i roghi si sono moltiplicati nel campo e anche gli altri sono andati via. «Ancora ieri questi alloggi erano intatti – spiega un operatore dell’Unhcr mostrando tre file di letti carbonizzati – ci sono stati ulteriori incendi e ora è tutto distrutto». Dieci metri più su una nuova fiammata si alza proprio adesso, cinque o sei uomini corrono via da una collinetta di rifiuti indicando tre bombole del gas disastrosamente vicine al fuoco. «Via, via, via!». Un ragazzo li fissa e non si muove. Ai suoi piedi un pacchetto di sigarette con la scritta “Nuoce gravemente alla salute”. Un padre continua a fare la doccia al figlio piccolo sotto il getto d’acqua che zampilla da una conduttura rotta. Ha fatto la fila per questo privilegio, i rubinetti qui sono a secco. Dove un tempo si vedeva umanità a perdita d’occhio, si contano solo spettri che si aggirano tra le rovine. Fares e tre suoi amici sorridono: hanno trovato un congelatore senza sportello. L’hanno riempito con tre coperte, delle pentole e un grosso peluche. Lo trascinano insieme per unirsi con il loro piccolo bottino ai disperati della strada. Che ci fate? «Vogliamo andare in Germania». La popolazione locale di Lesbo ha bloccato una delle principali strade di accesso a Moria. L’avrebbero dovuta percorrere le ruspe per andare a rimuovere le macerie e consentire così di rimettere in piedi l’accampamento. «Ci hanno preso in giro per anni, ora basta. Moria non deve riaprire», dice tirandosi giù la mascherina con la bandiera nazionale Costantino Bumbas, de l partito “Soluzione greca”. «C’è crisi economica, il turismo è massacrato e ora il Covid. Troppo per noi». Rami strappati dagli ulivi e due camion di traverso fermano anche gli operatori delle ong, da mesi nel mirino della rabbia locale. Che Moria non riapra è una speranza condivisa con la gente che era chiusa lì dentro, in un campo pensato per 3 mila persone e dilatato a una capienza quadrupla. Nato nel 2013 per la registrazione dei richiedenti asilo in transito dalla vicinissima Turchia verso il resto d’Europa, è poi cresciuto a dismisura. Nel 2015 sull’onda della guerra in Siria la pressione su Lesbo salì a 450 mila arrivi in un anno. La gente si mostrò solidale, il Papa ne lodò la generosità. L’accordo europeo del 2016 con la Turchia ha frenato solo a singhiozzo il flusso umano. E decine di migliaia di persone – gli afgani la nazionalità prevalente – sono andate ammassandosi nel campo, divenuto tristemente noto per le violenze e l’autolesionismo dei minori. «Ultimamente era stato avviato un ridimensionamento, – spiega Theodoros Alexellis dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati di Lesbo – poi il Covid ha bloccato tutto. Prima le chiusure parziali da marzo, poi il lockdown totale medico da dieci giorni. È stata questa la miccia che ha fatto esplodere la rabbia». E il fuoco. Il problema è che ora la miccia è accesa fuori. Davanti a un supermercato Lidl un gruppo di profughi ha conquistato il privilegio delle pensiline pensate per ombreggiare le macchine. Un uomo anziano tossisce ripetutamente. Beve da una bottiglia di plastica, prova a schiarirsi la gola, ma la tosse non smette. Conto sei mascherine per 63 persone ammassate sotto la tettoia. Improvvisamente il silenzio si rompe. Un camion carico d’acqua arriva nel piazzale. Un’onda umana si alza. Centinaia di mani si sollevano. Qualche cassa cade, i ragazzi si litigano le bottiglie sparse a terra. Poi è la volta di un carico di pesche. Sono le autorità greche ad aver inviato gli aiuti in attesa di una soluzione. Esclusa la partenza da Lesbo, concessa solo a 400 minori non accompagnati. «Gli altri non se andranno grazie al fuoco», ha scandito il portavoce del governo. In porto ha attraccato un traghetto. Circa 2 mila persone potrebbero essere sistemate lì. Ma si teme che le navi diventino ghetti galleggianti, magari sigillati per l’emergenza coronavirus. «Stipando a volte per anni migliaia di persone in un posto sovraffollato gli Stati Ue fanno deterrenza per scoraggiare nuove partenze sulla pelle degli esseri umani», denuncia Francesco Rocca, presidente di Croce e Mezzaluna Rossa internazionali. Ma quei posti sovraffollati prima o poi esplodono.

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