Riprendiamo da ITALIA OGGI del 08/09/2020, a pag.6 con il titolo "Osip Mandel'stam, uno dei più grandi poeti del ventesimo secolo, finì letteralmente stritolato nelle grinfie di Stalin" la recensione di Diego Gabutti.
Diego Gabutti
Osip Mandel’štam
Che cosa sia stata l'Urss sotto Stalin (a giudicare da saggi e memoriali, che falliscono sistematicamente nel tentativo d'illustrarla e decifrarla) è qualcosa di semplicemente indescrivibile, come la vita su una galassia remota. E una Germania hitleriana (più la miseria nera, più le carestie pilotate dall'alto, più le deportazioni di popoli interi, più il sistema dei passaporti interni, più il culto del Grande macellaio) dove tutti sono ebrei (gli ebrei, naturalmente, sono più ebrei degli altri). Niente regole: capriccio ideologico e arbitrio burocratico. Ogni singolo destino viene deciso dall'umore di comitati, sindacati, collettivi, falansteri, uffici di polizia.
La copertina (Giometti e Antonello ed.)
Non c'è differenza apprezzabile, in Urss, tra la vita nel lager e la vita da liberi, tra chi sta fuori e chi sta dentro. Non soltanto, in Urss, la libertà è un miraggio, ma persino la parola libertà è motivo di risate, come la parola «pupù» nelle barzellette che si raccontano ai bambini. Per mangiare, trovare lavoro, avere un tetto sopra la testa e coltivare amori o amicizie bisogna distribuire bustarelle (ma campacavallo) o avere qualche santo in paradiso cui rivolgere una supplica: bolscevichi di rango, cugini primi (ma anche secondi o terzi, nonché vecchi compagni di scuola, vicini di casa e parenti alla lontana) di bolscevichi di rango. Come testimonia l'epistolario di Osip Emil'evic Mandel'ëtam, meritoriamente tradotto da Giometti e Antonello, l'Urss è un incubo che prende forma, come in un racconto di E.T.A. Hoffmann, in una satira di Michail Bulgakov o in un fumetto di Dylan Dog: il Castello di Dracula e quello di Viktor Frankenstein materializzati con un alè op su una scala inimmaginabile, tanto da divorare in breve intere nazioni. Di Mandel'stam abbiamo parlato solo qualche giorno fa a proposito del suo famoso (e in Urss famigerato) epigramma su Stalin, «il montanaro del Cremlino», le cui «dita sono grasse come vermi», l'onnipotente che «mazzapicchia e rifila spintoni». Questa è una delle sue poesie minori, naturalmente: soltanto un divertissement, che tuttavia non diverte (era facile da prevedere) il montanaro con «i suoi occhiacci da blatta», che risponde com'è solito fare: «mazzapicchiando» e rifilando spintoni.
Tra i massimi poeti del Novecento, Mandel'stam non è soltanto o (meglio) non è sempre un poeta. E anche (anzi, è soprattutto) un cittadino sovietico, cioè un uomo sempre a caccia di lavori malpagati, eternamente affamato, con una moglie malata, costretto a elemosinare prestiti da amici e conoscenti, senza un domicilio fisso, le scarpe sfondate, niente welfare, non un abito pesante né tanto meno un cappotto ma soltanto stracci con i quali ripararsi dalle temperature polari, per tacere delle umiliazioni e delle sciocchezze che gli tocca ascoltare in silenzio, senza protestare, per esempio quando suo padre, scrittore (molto minore) anche lui, lamenta «l'egoismo e il disgustoso individualismo dei figli». Mandel'stam, rassegnato, risponde: «Sei più giovane tu di noi: scrivi versi sul piano quinquennale, mentre io non ci riesco. È un grande conforto per me che, almeno per mio padre, parole come collettivismo, rivoluzione e simili non sono parole vuote. Tu riesci a scorgere un significato umano nel tuo giornale, la Vecernjaja Gazeta, mentre io e i miei coetanei riusciamo a coglierlo a malapena nel meglio della letteratura mondiale». Assurdamente accusato di plagio per una traduzione che gli era stata commissionata dall'editoria di stato, viene beffeggiato e insultato sui giornali più importanti dai capi dell'Unione degli scrittori sovietici, tutti campioni di realismo socialista e tutti autori, dal primo all'ultimo, di lodi sperticate (in versi e in prosa) al grande Stalin, maestro del proletariato mondiale, padre dei popoli, amico dei poveri, patrono delle arti progressiste. Osteggiato, messo al bando, esiliato da Mosca e Leningrado, vittima d'attacchi di panico, privato d'ogni mezzo di sussistenza, accusato (c'è da ridere) di trotskismo e alla fine condannato per «attività controrivoluzionaria», Mandel'stam è un poeta soltanto nei ritagli di tempo, cioè nei rari momenti in cui scampa al «puro orrore esistenziale» — così Iosif Brodskij — e non gli tocca correre dietro a un invito a cena, a un'offerta farlocca di lavoro o a un biglietto da dieci rubli. «Nove decimi» della sua vita, quando cade la dura dura pioggia dell'utopia, non trovano riparo sotto l'ombrello del canto poetico. Vale per l'Epistolario quel che, per restare a Brodskij, vale per «le memorie della vedova di Osip Mandel'ètam». Queste «provvedono appunto a questo, a colmare quei nove decimi. Illuminano il buio, colmano i vuoti, eliminano le distorsioni. Il risultato finale è simile a una risurrezione; solo che in queste pagine si reincarna e rivive anche tutto quello che uccise l'uomo, ciò che gli è sopravvissuto e continua a esistere e a strappare applausi. Di fronte a tanta precisione, e per il fatto che grazie ai versi di Osip, grazie agli atti della sua vita e grazie alla natura della sua morte, qualcuno ha potuto produrre una prosa talmente grande, è facile capire (anche senza conoscere un solo verso di Mandel'stam) che l'uomo rievocato in queste pagine (Le memorie di Nadezda Mandelstam, l'epistolario tradotto da Giometti e Antonello — «è davvero un grandissimo poeta: tale è l'entità e l'energia del male scatenato contro di lui». Contro di lui come contro ogni altro cittadino sovietico. In Ursa, sotto il montanaro del Cremlino, c'è «orrore esistenziale» per tutti, senza avarizia. Come scrive Osip a Nadezda pochi mesi prima dell'arresto: «Non credere a chi loda i versi scorrevoli. Chi li elogia è meschino».
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