Alain Finkielkraut in prima persona
Commento di Diego Gabutti
Alain Finkielkraut, In prima persona, Una memoria controcorrente, Marsilio 2020, pp. 128, 15,00 euro, eBook 10,99 euro.
Filosofo e pamphlettista, accademico di Francia, Alain Finkielkraut fu aggredito per strada, mesi fa, da un commando di Gilet jaunes al grido di «sporco ebreo», «maledetto sionista, «la Francia è dei francesi», «il popolo ti punirà». Tacciato d’«islamofobia», Finkielkraut conta ben pochi amici anche tra le Gardes rouges della sinistra caviar, che al proletariato dei quartieri popolari, colpevole di votare il Front national per difendersi dalla crescente islamizzazione del paese, preferisce le tiers-monde jihadista delle banlieues. Una volta Finkielkraut dichiarò: «È osceno che persone in grado di mandare i propri figli al liceo Henri IV di Parigi si permettano di dare lezioni agli abitanti delle periferie che votano Le Pen».
Alain Finkielkraut
Ancora lo maledicono per questo. Convertito alla filosofia nel Sessantotto, nei giorni delle barricate e di quello che lui e Pascal Bruckner chiamarono il «nuovo disordine amoroso», quando il futuro «Immortale» militava giovanissimo «alla sinistra della sinistra», Finkielkraut è stato preso di mira dai più scalmanati Gilet jaunes e dai pasdaran, che non hanno mai letto un libro in vita loro, salvo forse il Corano, come anni prima s’era scontrato politicamente con gl’intellò maò-maò del goscismo, suoi primi compagni d’avventura, che di libri ne avevano invece letti in abbondanza, anche se nessuno particolarmente raccomandabile, da Herbert Marcuse e Jean Paul Sartre ai diari boliviani di Che Guevara. (A destra c’è in fondo un solo Mein Kampf, mentre a sinistra ci sono intere biblioteche di Mein Kampf – e nemmeno uno che venga bandito dai Piagnoni della cancel culture, che in compenso proscrivono Amleto, Tom Sawyer, Paperino e Il dittatore dello Stato libero di Bananas). Nato da genitori sopravvissuti ad Auschwitz, Finkielkraut scoprì le sue radici ebraiche, ignorate fino ai trent’anni, intanto che si liberava dalle catene del goscismo. Scoprì, insieme alle sue radici ebraiche, anche le radici gosciste del moderno negazionismo, come racconta in questa sua biografia intellettuale, In prima persona, appena tradotta da Marsilio: «“Le camere a gas sono una favola, gli ebrei non sono morti”: questa imperturbabile constatazione, che supera per violenza le grida d’odio e le esortazioni all’omicidio, nasce dall’incontro tra l’orgoglio della demistificazione e la “lotta” di classe». È attraverso il negazionismo, che gabella la Shoah come un tarocco sionista, che il moderno antisemitismo, nell’illusione di rendersi più presentabile, si trasforma in antisionismo, in crociata antimperialista contro Israele e in allucinazione marxleninista. Finkielkraut fa qualche esempio di questo delirio.
«Jean-Luc Godard», scrive, «cineasta universalmente acclamato per i suoi film… e, ancor più, per i suoi vaticini… con una sola frase riesce a polverizzare il record di oscenità stabilito da Faurisson [Robert Faurisson, antisionista invasato e farneticante, che Noam Chomsky definì «non un filonazista ma una specie di liberal relativamente apolitico] che sembrava ineguagliabile: “Gli attentati suicidi dei palestinesi, per riuscire a far esistere uno Stato palestinese, assomigliano, in fin dei conti, a quanto fecero gli ebrei, lasciandosi guidare come pecore e sterminare nelle camere a gas per permettere allo Stato d’Israele d’esistere”». Amico di Milan Kundera, Finkielkraut è un devoto ammiratore di Philip Roth, mentre non nasconde la sua antipatia per l’antisemitismo, tra gli altri, di «Gianni Vattimo, il filosofo del pensiero debole». Discepolo, in filosofia, di Martin Heidegger, metafisico in odore di zolfo, Finkielkraut non perdona alla sinistra tradizionale e al Sessantotto i vaneggiamenti islamisti e antisemiti ma perdona a Heidegger, maestro cantore del moderno esistenzialismo, la vergognosa sbandata nazionalsocialista e l’antisemitismo confesso e ribadito dei Quaderni neri.
«Il filosofo più profondo dell’epoca», spiega Finkielkraut, «ha creduto in Hitler, nonostante quest’ultimo non avesse peli sulla lingua e non avesse mai nascosto le sue vere intenzioni. Si è allineato a ciò che Hans Jonas, il suo discepolo ferito, chiamava “la marcia fragorosa dei battaglioni bruni”. Da semplice lettore della sua opera, ero scocciato e costernato, ma mi consolava il fatto di non trovare traccia nella sua opera di questo particolare traviamento che, con un eufemismo, egli definiva una “grosse Dummheit”, una grossa sciocchezza. Analizzavo i testi e non mi accadeva la stessa cosa che avveniva per esempio con Kant o Nietzsche. Non ero oggetto, cioè, di nessuna aggressione concettuale. Heidegger non mi diceva che gli ebrei erano “il popolo più funesto della storia mondiale” e neppure che erano inchiodati all’eteronomia».
Poi Finkielkraut aggiunge: «Sono stato colpito al cuore dai Quaderni neri, e non mi lancerò certo in un’esegesi contorta per attenuare lo scandalo. Non cercherò di discolpare Heidegger, argomentando che le critiche che egli rivolge al cristianesimo sono molto più numerose e virulente. Ma non per questo cederò alla diffida degli indignati poiché, se c’è lo scandalo, è proprio perché l’opera è grande, vale a dire illuminante. Heidegger, in realtà, non è mai stato così presente fra noi – il suo pensiero ci descrive, che lo vogliamo o no, la sua diagnosi trova ogni giorno una nuova conferma e chi fustiga con maggior asprezza la sua nostalgia delle radici si ostina, ignaro, a dargli ragione». Simpatica dialettica, più sessantottina, però, che post o ex sessantottina. È la stessa dialettica che a sinistra vale per Lenin, Mao e Pol Pot: anche il peggior cannibale, quando non è affamato, è pur sempre one of us, uno di noi, un lettore del Capitale, uno che festeggia il Primo Maggio con un fazzoletto rosso al collo. Antisemitismo a parte, a parte la rivoluzione culturale e lo sterminio dei kulaki, be’, sono persone da ammirare, via: filosofi profondi, imperatori celesti, padri dei popoli. Annota Maurizio Ferraris in un gran bel libro, L’imbecillità è una cosa seria, il Mulino 2016 (che qui caldamente consiglio casomai vi fosse sfuggito): «Con strepitosa comicità involontaria si è scritto che quello di Heidegger è un “antisemitismo metafisico”» ma «ovviamente non ha senso parlare d’antisemitismo metafisico per Heidegger più di quanto abbia senso sensato parlare d’antisemitismo aeronautico per Goering”» (pilota da caccia nella prima guerra mondiale).
Diego Gabutti