Gli ultimi anni di Eichmann in Argentina Recensione di Susanna Nirenstein
Testata: La Repubblica Data: 30 agosto 2020 Pagina: 19 Autore: Susanna Nirenstein Titolo: «Radiografia di un mostro»
Riprendiamo da REPUBBLICA di ieri, 29/08/2020 a pag.19, con il titolo "Radiografia di un mostro, la recensione di Susanna Nirenstein.
Susanna Nirenstein La copertina (Guanda ed.)
“Mumentito» disse l'agente del Mossad Peter Malkin in uno spagnolo tra i più improbabili a Ricardo Klement alias Adolf Eichmann che si stava avvicinando in una strada deserta nel buio di Buenos Aires: erano le 20,50 del 10 maggio 1960. La colluttazione fu breve, il rapimento da parte dei servizi segreti israeliani ebbe un esito perfetto, finalmente la fuga durata 15 anni dell'SS-Obersturmbannfuehrer, esperto in questioni ebraiche del III Reich, uno degli architetti della Soluzione Finale, ebbe fine. Ma poco dopo, nel 1961, quando si concluse il processo a Gerusalemme, sarebbero incominciate nuove questioni, e non tanto sulle responsabilità di Eichmann nell'annientamento degli ebrei perché fu generalmente accettato che l'ex tenente colonnello nazista aveva fin dall'inizio forzato l'emigrazione degli ebrei dalla Germania e dall'Austria e che, dopo l'invasione della Polonia e dell'Unione Sovietica, aveva messo tutte le sue capacità nell'assicurarsi che, dovunque nell'Europa occupata dai nazisti, gli ebrei fossero catturati, concentrati nei ghetti e trasportati nei campi di sterminio per essere uccisi (il diario del direttore di Auschwitz Rudolf Hoss l'aveva chiamato in causa molte volte, del resto). No, non fu di questo che si continue) tanto a discutere, ma della sua natura, della sua personalità, del male radicale, di come potesse convivere quest'uomo così ritroso, che si presentava come un mero esecutore degli ordini superiori, con l'immagine di sterminatore di massa, di incarnazione del diavolo che tutti si aspettavano di vedere. Principessa del dibattito naturalmente fu Hannah Arendt che, presente al processo, non lo trave) particolarmente intelligente e forgiò la sua nota definizione di 'banalità del male". Definizione a cui molti si opposero fin dall'inizio, Gershom Scholem soprattutto, Mary Mc Carthy, e poi studi più recenti di Deborah Lipstadt, di Bettina Stangneth come diremo più avanti. Questa premessa era necessaria per affrontare il romanzo di Ariel Magnus L'esecutore, dove lo scrittore nato nel 1975 a Buenos Aires, traduttore dal tedesco e giornalista, ricostruisce gli ultimi due anni, da quando cioè la famiglia lo raggiunge, di Eichmann in Argentina. Guardiamo con curiosità questo gesto di voler entrare nella testa e nei gesti quotidiani di un assassino di massa tanto disgustoso, anche perché capiamo subito che Magnus non ne fa un ritratto repellente, non dipinge un sadico simile all'ufficiale delle SS Maximilien Aue raccontato ne Le benevole di Jonathan Littell per capirci: per la maggior parte del tempo il nostro autore accompagna Eichmann nella quotidianità più ordinaria, quando va in cerca dei fiori per la moglie che sta per sbarcare all'aeroporto, mentre considera l'eleganza dei palazzi della capitale e in fondo non prova nostalgia dell'Europa, beve con gusto i suoi bicchieri di vino, ricorda gli studi sull'ebraismo che, ai suoi tempi, sperava gli avrebbero fatto guadagnare dei galloni, quando va a cavallo sui monti mentre lavora alle centrali idroelettriche o più tardi si impiega alla Mercedes, con umiltà e risentimento, o si mostra invidioso del successo pecuniario di certi camerati rifugiati come lui nel paese di Peron, o dichiara il suo amore così profondo per la natura, dove tutto è ordinato secondo uno schema piramidale, così simile alla società che lui ha sempre sognato. Certo ci sono del momenti sgradevoli, quando af- foga lentamente un coniglio d'angora (di cui aveva un allevamento), quando tira degli schiaffi ai figli, o alla sposa, così, per farsi rispettare, quando ha dei rapporti sessuali un po' anomali. Ma fino a un certo punto diremmo che Magnus tratteggia un uomo mediocre, con una coniuge rotonda e cattolica, dei figli a cui tiene e di cui ha sentito la mancanza, un uomo appunto "banale", "superficiale" come avrebbe detto la Arendt. Era così? Mentre ci incominciamo a chiedere perché Magnus abbia voluto scrivere L'esecutore (a parte il fatto, come rivela alla fine del libro che lui stesso è nipote di una sopravvissuta e che suo padre odiava con particolare virulenza Eichmann), ecco che pere le carte in tavola cambiano, ecco che Magnus cita di fatto il materiale che Bettina Stangneth ha usato nel suo La verità del male srotolando i nastri (recuperando molti materiali inediti) che narcisisticamente Eichmann aveva inciso nelle interviste a Willem Sassen, un collaboratore olandese nazista, anche lui esule in Argentina: nastri che mostrano quanto Eichmann fosse ideologicamente coinvolto da Hitler e dall'antisemitismo, negasse con sbruffoneria l'evidenza («nelle marce della morte non è mai morto nessuno»), quanto non avesse mai mostrato rimorso se non quello di non aver fini to il lavoro, quanto avesse rivendicato le cifre dello sterminio. Di come rideva all'idea dei milioni di ebrei che aveva ucciso. Ah, ecco, questo era Eichmann allora, la personificazione del male con un aspetto tra i più banali. Anche Magnus è d'accordo.
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