Trump-Biden, la Casa Bianca si vince al centro Editoriale di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica Data: 30 agosto 2020 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Trump-Biden la Casa Bianca si vince al centro»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/08/2020, a pag. 1, con il titolo "Trump-Biden la Casa Bianca si vince al centro", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Joe Biden, Donald Trump
Archiviate le Convention, siamo all’inizio dell’ultimo capitolo della sfida presidenziale negli Stati Uniti. Donald Trump e Joe Biden, pur diversi in tutto, lo affrontano con una strategia assai simile: definire l’avversario come un estremista per poter conquistare al centro dell’elettorato i voti decisivi per ottenere la vittoria nelle urne del 3 novembre. Condizionate dal Covid, nell’inedito formato digitale, senza il parterre di delegati e orfane della pioggia finale di palloncini colorati, le Convention di Milwaukee e Charlotte hanno comunque rispettato il copione elettorale che vede i candidati invitare le rispettive basi ad unirsi per porre le fondamenta del duello nazionale, spiegando perché chiedono il voto agli elettori. Lo sfidante democratico, Joe Biden, si è presentato alla Convention di Milwaukee, in Wisconsin, come il paladino della «riunificazione dell’America». l continua a pagina 27 segue dalla prima pagina E ha imputato al presidente Trump azioni personali, scelte politiche e una visione ideologica che ha «diviso la nazione» innescando violenze razziali, disprezzo per la Costituzione, impoverimento del ceto medio e imperdonabili errori nella cruciale battaglia contro il virus Covid 19 costata all’America almeno 180 mila vittime. L’intento di Biden è stato di presentare tali argomenti con toni, termini e volti — a cominciare dalla vice Kamala Harris — mirati a rubare voti al centro, chiedendo a moderati, repubblicani e conservatori di abbandonare Trump e salvare la nazione «dalle tenebre» di una rielezione. Per poterla «ricostruire». Quando a Charlotte, in North Carolina, si è alzato il sipario sulle assise repubblicane Trump ha interpretato un copione assai simile ma rovesciato: accusando Biden di essere il «cavallo di Troia del socialismo» e di voler consegnare la nazione alla «sinistra radicale» continuando «gli errori commessi da Obama» come dimostrato dalla «gestione da parte dei democratici di grandi città come New York o Minneapolis dove non ci sono più né legge né ordine». Il tutto al fine di essere lui, Trump, a chiedere il voto ai centristi del campo opposto puntando su una raffica di volti e messaggi di donne e minoranze — a cominciare dall’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley — ovvero le componenti-chiave della coalizione democratica. Insomma, ci troviamo di fronte ad una sfida al centro che ripropone la dinamica dei duelli presidenziali americani degli ultimi venti anni — da Bush-Gore del 2000 deciso da una sentenza della Corte Suprema a Trump-Hillary del 2016 dove furono determinanti poche migliaia di voti in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania — ma con tre differenze di rilievo. Primo: la mappa degli Stati in bilico è assai più estesa del recente passato perché oltre ai tradizionali Ohio, Pennsylvania e Florida include molti Stati del Mid-West, degli Appalachi e anche del Sud dove perfino il Texas, inespugnabile roccaforte repubblicana dal successo di Richard Nixon nel 1972, è sorprendentemente in gioco a causa del rafforzamento demografico delle minoranze. Secondo: dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis le violenze razziali continuano, ad intensità alterna, ponendo l’interrogativo se gioveranno di più a compattare i voti di minoranze, donne e giovani attorno a Biden oppure di uomini bianchi ed evangelici attorno a Trump. Terzo: la delegittimazione dell’avversario ha raggiunto livelli tali da non escludere che il risultato finale possa essere contestato dal perdente a causa del dissenso sulle modalità del voto per posta, molto diffuso a seguito della pandemia. Ovvero, è un duello su una mappa elettorale molto estesa, con l’incognita del fattore razziale e lo spettro di una clamorosa contestazione finale. Per avere un’idea dell’incertezza che regna fra gli analisti elettorali basta confrontare il democratico Jim Messina, già al fianco di Obama nel 2012, quando assicura che «le violenze razziali allontanano gli indipendenti da Trump» con Liam Donovan, stratega repubblicano, secondo il quale «le violenze in strada giovano a Trump perché spostano l’attenzione degli elettori dal Covid a legge ed ordine». Ed i sondaggi, che finora avevano dato Biden con un importante vantaggio, adesso suggeriscono un recupero di Trump. Da qui la previsione di un finale di campagna elettorale al calor bianco, con entrambi gli sfidanti alla ricerca della “sorpresa” capace di mettere ko l’avversario grazie ad una “pistola fumante” per delegittimarlo in maniera definitiva. Usando qualsiasi carta o espediente possibile, a cominciare dal palcoscenico dei dibattiti tv. Da qui il pathos con cui tanti americani affrontano l’Election Day, tradendo il timore che la nazione “leader del mondo libero” sia in bilico sul suo destino. Anche se sui maggiori temi di politica estera — dalla sfida alla Cina di Xi al sostegno alla pace Israele-Emirati — c’è in realtà una forte convergenza al Congresso. Ma alleati ed avversari dell’America commetterebbero un grave errore scambiando la drammatica sfida presidenziale per un elemento di debolezza strategica della democrazia americana. È vero l’esatto opposto perché è proprio lo scontro frontale, diretto, a tratti brutale, fra idee opposte di nazione che alimenta la democrazia americana da quando nel 1828 Andrew Jackson sconfigge Quincy Adams nella prima campagna populista contro le “élite del Nord-Est”. Il disaccordo sulla schiavitù degenera addirittura in guerra civile fra l’Unione di Abraham Lincoln e la Confederazione di Jefferson Davis. E nel 1932 Franklin Delano Roosevelt travolge Herbert Hoover con un drammatico voto spartiacque che rigetta il modello della nazione ultraconservatrice aprendo le porte al New Deal ed all’arrivo di milioni di immigrati. Mezzo secolo dopo, nel 1980, la rivoluzione invece è conservatrice di Ronald Reagan ed umilia i democratici di Jimmy Carter. Così come nel 2008 Barack Obama sconfigge McCain dimostrando che nel XXI secolo un afroamericano può essere l’inquilino nello Studio Ovale. Ognuno di questi — ed altri simili — passaggi è stato aspro, frutto di conflitti fra modelli opposti di Unione, di idea stessa della nazione. Perché l’America è una terra di pionieri e patrioti, che sin da quando attraversarono il fiume Ohio diretti verso Ovest hanno lottato non solo contro i pericoli che affrontavano ma anche fra loro per decidere quale era il metodo migliore per avanzare. Nell’era digitale tutto ciò si ripete, esaltato dal ruolo dei social network per delegittimarsi a vicenda. Insomma, sono i contrasti esistenziali che nutrono la democrazia americana, grazie ad una Costituzione che definisce l’Unione “sempre perfettibile” e dunque mai tabù.
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