Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 30/08/2020, a pag.15 con il titolo "Le mire di Erdogan su Cipro", l'analisi di Francesco Palmas; con il titolo "La rivoluzione dei 6 mesi cambia il Medio Oriente", il commento di Antonio Ferrari.
Ecco gli articoli:
Recep T. Erdogan
Francesco Palmas: "Le mire di Erdogan su Cipro"
Francesco Palmas
Non c'è pace nel Mediterraneo orientale. Da metà agosto è un continuum di manovre navali e di ratifiche di trattati antitetici sulle zone economiche esclusive. Sullo sfondo, c'è una Turchia sempre più aggressiva. Per decenni, Ankara è stata solo una potenza terrestre. Dal 2000, sta investendo copiosamente sulla flotta. Surclassa ormai Atene per naviglio: oltre 120mi1a tonnellate contro 65mila. Cipro è indifesa. Non ha una Marina, ma solo un pugno di pattugliatori costieri. Erdogan ha gioco facile. Ha tessuto una trama circolare, quasi una tenaglia, avviluppando i potenziali nemici in una rete di basi navali, dal Corno d'Africa a Misurata, in Libia. Con il governo di Tripoli ha siglato un'intesa sulle zone economiche esclusive, dal potenziale esplosiva L'accordo ha esteso la piattaforma turcomediterranea a 200 miglia nautiche, contro le 12 previste dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e le 6 relative al mar Egeo. Con Ankara esiste un «mega-problema», a tratti irriducibile. La Turchia disconosce la Convenzione e, di conseguenza, non è possibile adire il Tribunale internazionale sul diritto del mare. La sua intesa con Tripoli è gravida di conseguenze, perché priva Atene di ampi spazi di mare, aperti a sud di Creta a promettenti ricerche energetiche; in seconda battuta, separa la Grecia da Cipro e, terzo, taglia in due il Mediterraneo, creando problemi geopolitici sulla libertà di navigazione e la posa di gasdotti fra Israele, Cipro, Grecia e l'Italia Ecco perché Atene è corsa ai ripari, ratificando un accordo sulle sfere d'influenza con l'Egitto, che si sovrappone in parte a quello turco-libico. Il confronto si sta polarizzando. Mentre Atene brandisce la minaccia delle sanzioni, la Germania sta tentando una mediazione disperata A parole tutti si dichiarano pronti a negoziare, Berlino e Roma obtorto collo. Sono le più esposte al ricatto turco sui migranti, via Balcani e via Tripolitania-Mediterraneo centrale. Erdogan ha più carte da giocare. Sul piano diplomatico, sta cercando la sponda di Donald Trump, cui avrebbe confidato che «non è la Turchia a causare instabilità nell'area». Più di Atene, Ankara è strategica per la Nato. Geograficamente, gioca un ruolo chiave in funzione antirussa. Controlla il mar Nero e gli stretti. Ma le parole di Erdogan sono insulse, pronunciate mentre navi turche navigano fm Creta e Cipro. «La forza primeggia sul diritto», avrebbe detto Bismark. La Turchia pare ispirarsene. Occupa Cipro nord dal 1974. Non riconosce la Repubblica di Cipro, membro dell'Ue, con cui è ai ferri corti. Nicosia ha deciso di esplorare l'alto mare nel 2010, quando Israele ha scoperto riserve di idrocarburi al largo di Haifa. Da quel momento in poi sono cominciati i guai. Trovando gas nelle sue acque, Cipro ha scatenato la reazione di Ankara, timorosa che Nicosia violi l'impegno di condivisione delle risorse con il Nord. E ormai dal 2011 che Ankara si frappone, inviando navi e aerei nelle acque contese. Il 21 settembre scorso, ha firmato con il nord dell'isola un accordo che le consente di esplorare le acque a Cipro, non solo a Nord ma anche a Sud. Peccato che il governo di Cipro Nord non sia legittimato a concludere accordi internazionali, essendo riconosciuto dalla sola Turchia. Per tutelarsi, Nicosia ha siglato un patto di mutua difesa con Israele. Farà altrettanto con Parigi, mentre gli Emirati si stanno dispiegando in forze a Creta. Se fallisse la mediazione tedesca, non rimarrebbero che le sanzioni dell'Ue invocate da Atene: Joseph Borrell, capo della politica estera, lo ha detto senza giri di parole, incassando la dura replica turca che con l'Europa ha sempre l'arma dei migranti che ospita (a pagamento) da brandire: «Se i tentativi di Atene di espandere le sue acque territoriali non sono un casus belli, allora cosa sono?», ha replicato il vicepresidente turco Fuat Oktay. Mentre la Grecia, dopo le manovre navali con Italia, Francia e Cipro, reagirà a ogni «provocazione». E se i turchi si dichiarano pronti a negoziare, continuano però a provocare. Hanno appena rilasciato un nuovo avviso ai naviganti (Navtex), informandoli che la nave Oruç Reis continuerà le ricerche di idrocarburi fra Creta e Cipro fino a martedi. A prova della tensione, ieri Ankara ha detto anche di aver intercettato nella zona sei caccia F-16 greci. Colmo dei colmi, i turchi terranno nuove esercitazioni navali, perdi più «a fuoco reale», proprio da martedì e fino all' 11 settembre, al largo di Iskenderun, la Alessandretta del mandato francese al tempo del crollo ottomano, e di Anamur a nord di Cipro.
Antonio Ferrari: "La rivoluzione dei 6 mesi cambia il Medio Oriente"
Antonio Ferrari
Turchia e Grecia si sono affrontate a viso aperto nel Mediterraneo orientale disputandosi zone di prospezione e acque territoriali e quasi mimando uno scontro armato con due esercitazioni militari gemelle: quella congiunta fra Francia, Italia, Grecia e Cipro che si è conclusa due giorni fa e quella di Ankara che si terrà fra tre giorni nelle acque antistanti Cipro del Nord Sono prove muscolari in vista della spartizione che prima o poi ci sarà, perché il bottino in palio è il promettente eldorado di idrocarburi addensati sul fondale marino. Un puzzle in cui il gasdotto East-Med che unirà Israele, Cipro e Grecia con l'Italia s'incrocia con il giacimento egiziano Zohr scoperto dall'Eni e quelli turco-libici di recente costituzione senza scordare come terzo incomodo il SouthStream che attraversa il Mar Nero finanziato da Mosca. Quanto basta per risvegliare appetiti energetici e imperialismi nazionalistici, come quello neo-ottomano di Recep Tayyp Erdogan e quello panrusso di Vladimir Putin. Ma perché improvvisamente è accaduto tutto cid? Qualcuno ipotizza che sia stato il Covid-19 a cambiare la mappa geopolitica del Medio Oriente, sterilizzando i conflitti in corso e lasciando che un silenzioso bradisismo diplomatico facesse il suo lavoro. In parte è sicuramente vero. Sta di fatto che molte cose sono cambiate rispetto a sei mesi fa. A cominciare dal ruolo americano nella regione per finire con l'«Accordo di Abramo» fra Israele e gli Emirati del Golfo capeggiati da Abu Dhabi, cui si aggiungeranno Bahrein eOman: un capovolgimento copernicano rispetto alla politica dell'amministrazione Obama, che avvicinando Israele alle monarchie del Golfo punta, grazie anche al consenso dell'Egitto e della Giordania, a creare una rete sunnita (Riad al momento nicchia, ma è solo pretattica) che faccia da contenimento all'espansionismo sciita di Teheran e insieme ponga le basi per un mutuo riconoscimento di Israele da parte di storici avversari, con lo scopo accessorio e non secondario di tamponare l'esuberanza turca e fermare l'avanzata russa nei mari caldi dopo il successo di Mosca in Siria e le intese con la Libia del generale Haftar Come si vede, è un mosaico composto da una miriade di tessere. Come quella libanese, dove all'indomani della terribile tragedia che ha sventrato mezza Beirut non solo la popolarità del Partito di Dio è in picchiata, ma improvvisa si alza la voce del cardinale Béchara Boutros Rai; il rispettato patriarca maronita che accusa apertamente Hezbollah di sabotare il processo di distensione, allineandosi forse non del tutto casualmente alla linea politica di Israele. Ma spostiamoci più a sud e anche lì c'è una non piccola sorpresa: anche il Sudan sembra pronto a compiere il passo inaudito del riconoscimento di Israele (Mike Pompeo sta tessendo una tela delicata e sottile con Khartum), così come stanno facendogli Emirati. Certo, l'Egitto nel 1979 e la Giordania nel 1994 hanno siglato accordi di pace con il vicino israeliano, ma cid derivava soprattutto dal fatto di essere Stati confinanti, con i quali gravavano peraltro contese territoriali fin dal primo conflitto del 1948. Oggi invece sta nascendo, fra mille problemi, una sorta di Commonwealth intersunnita con un alleato fino a ieri impensabile come la nazione ebraica. Ma se in parte già dà risultati concreti il contenimento della mezzaluna sciita (se ne vedono i risultati e i pasdaran di Teheran sono in netta difficoltà, in Siria, come in Libano), all'interno del mondo sunnita si gioca la partita forse più rischiosa: quella che vede da una parte Turchia e Qatar che finanziano e sostengono i Fratelli musulmani, Hamas, lo Yemen, i libici e i dispersi eredi di Mohammed Morsi in Egitto e dall'altra il grande malato saudita e gli Emirati che si oppongo al disegno egemone di Erdogan. Al centro della ragnatela ora ci sono Israele e Washington. Non solo come potenze militari, ma come volano economico nella regione, ed è principalmente questa prospettiva che ha attratto gli Emirati, che ufficialmente sospeso il boicottaggio nei confronti di Israele come hanno fatto anche Marocco, Tunisia, Mauritania, Algeria e la stessa Autorità Nazionale Palestinese all'indomani degli accordi di Oslo. In definitiva, una sorta di joint-venture in cui gli emiri assicurano il petrolio e Washington e Genrsalvmme il know how. Ed è soprattutto l'America il nuovo protagonista di questo "Great Game"che si è spostato dalle leggendarie lande afghane al Mare Nostrum, con gli stessi player di sempre: la Turchia e il blocco russo-iraniano. Un risiko dagli esiti certamente imprevedibili ma con una vittima sacrificale già designata: la questione palestinese, che in questo gioco dei potenti passa teatralmente in secondo piano.
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