“Imperialismo, fascismo e stalinismo», scrive Christopher Hitchens nel suo La vittoria di Orwell, Scheiwiller 2008, «furono i tre nodi centrali del XX secolo» e l'autore di Giorni in Birmania, poi d'Omaggio alla Catalogna e di 1984, che li pose al centro della propria opera, ne fu un avversario implacabile. Ne fu anzi il solo avversario verosimile. Di tutti gli altri c'era (e c'è) poco da fidarsi. Gli antifascisti furono comunisti, e gli anticomunisti tifarono per l'imperialismo, mentre gli antimperialisti furono tutti, dal primo all'ultimo, avversari sempre e soltanto dell'imperialismo altrui. Pensiamo «solamente all'ambiente di lingua inglese», scrive ancora Hitchens, dove «troviamo George Bernard Shaw, Ernest Hemingway. John Boynton Priestley, Herbert George Wells. Poi, ovviamente, c'erano i poeti: Cecil Day Lewis, Stephen Spender, W.H. Auden. Si può tranquillamente affermare che le opinioni politiche di tali persone non sarebbero oggi riproponibili. Alcune loro affermazioni erano stupide o funeste, altre semplicemente sciocche, ingenue o superficiali. Per contro, è stato possibile ripubblicare ogni singola lettera, recensione e saggio scritti da Orwell senza esporre lo scrittore al minimo imbarazzo». Ai grandi libri su Orwell - la biografia di Bernard Crick (il Mulino 1991) e il citato saggio di Hitchens, il recentissimo Teoria della dittatura di Michel Onfray (Ponte alle Grazie 2020) e il classico ma da noi misconosciuto Orwell, o l'orrore della politica (Irradiazioni 2007) di Simon Leys, che di Orwell è stato il solo erede nell'età dei terzomondismi, dei maoismi e delle sessantotterie - s'aggiunge adesso Orwell, sobria e rigorosa graphic novel sceneggiata da Pierre Christin e disegnata da Sébastien Verdier.
Già autore, con Enki Bilal, del più lucido e cupo racconto a fumetti sui fantasmi del secolo breve, Le falangi dell'ordine nero, Alessandro 2013, Christin racconta qui le straordinarie imprese umane e intellettuali dell'uomo che seppe riconoscere il Grande Fratello in tutti i suoi travestimenti e avatar novecenteschi: l'aristocrazia imperialista (in primis inglese) che teneva alla frusta le colonie asiatiche, le camicie nere e brune che s'apprestavano a restaurare l'ordine tradizionale epurando l'Europa dai «subumani» e infine il partito comunista, che aveva trasformato la Russia in un gigantesco lager a cielo aperto (e che avrebbe voluto esportare in tutto il mondo il regime dei sacrifici umani, del filo spinato, delle carestie pilotate, dei morti a milioni, del realismo socialista, dei plotoni d'esecuzione.) Armato soltanto «d'una macchina da scrivere sgangherata e d'un carattere ostinato», scrive Hitchens, «Orwell fronteggiò praticamente da solo «le ortodossie e i dispotismi rivali della sua epoca. Studente a Eton, nemico giurato delle istituzioni scolastiche britanniche, poliziotto coloniale in Birmania, esploratore dei bassifondi parigini e londinesi, romanziere e giornalista di sinistra, storico e cronista della vita operaia, anche un po' omofobo, come si direbbe oggi, George Orwell (al secolo Eric Blair) riconobbe, dietro tutte quelle maschere, l'unico e solo Grande Fratello totalitario, e non gli fece sconti. Come romanziere, non fu mai granché (morendo, lasciò detto di non ripubblicare i suoi primi due romanzi, Fiorirà l'aspidistra e La figlia del reverendo, già allora praticamente illeggibili). Fu a Barcellona, dove prese le armi (come raccontano bene Christin e Verdier) nelle milizie del Poum, un partito antistalinista d'estrema sinistra, che scrisse il suo libro migliore, Omaggio alla Catalogna, e guardò negli abissi del suo (e nostro) tempo, purtroppo ancora in pieno svolgimento. Capi che fascismo e comunismo erano la stessa identica cosa e questa consapevolezza diede forma alle sue ultime prove letterarie: La fattoria degli animali («molte copie del libro furono confiscate dalle autorità militari americane in Germania, che le consegnarono all'esercito russo affinché le distruggesse») e 1984 («la summa di quanto Orwell aveva appreso sul terrore e sul conformismo in Spagna, sul sadismo a scuola e in Birmania, sulla propaganda e la falsità in decenni di battaglie politiche, sullo squallore e la degradazione che aveva conosciuto mentre scriveva» i suoi classici reportage «sulla condizione dei lavoratori delle fabbriche e delle miniere di carbone»). Capì, soprattutto, come funzionava il gioco. «Non sarà mai possibile», scrisse Orwell in Omaggio alla Catalogna, «giungere a un rendiconto dettagliato e obiettivo degli avvenimenti di Barcellona, perché i documenti necessari di fatto non esistono. Gli storici non avranno nulla su cui basare il loro lavoro se non la propaganda di partito. Io stesso non possiedo altro se non ciò che ho visto con i miei occhi e le testimonianze dirette di persone che ritengo affidabili. Tutto ciò mi spaventa molto perché mi fa pensare che il concetto stesso di verità oggettiva stia lestamente scomparendo dalla faccia della terra. Dopo tutto, è più probabile che siano quelle bugie, o bugie simili, a passare alla storia […] L'obiettivo implicito di una simile linea di pensiero è un mondo da incubo in cui un dittatore, o qualche cricca al comando, controlli non soltanto il futuro, ma anche il passato. Se il dittatore dice che questo o quell'avvenimento non è mai successo, allora, l'avvenimento non è mai successo. Se dice che due più due è uguale a cinque - beh, due più due sarà uguale a cinque». Dopo di allora, Orwell non parló d'altro, ed effettivamente, da allora, non c'è stato altro da dire. Christin e Verdier riportano una sua riflessione degli ultimi mesi di vita: «Dopo la guerra civile spagnola non posso onestamente dire d'aver fatto grandi cose, tranne scrivere, allevare galline e coltivare verdura. Ciò che ho visto in Spagna e conosciuto in seguito del funzionamento interno dei partiti di sinistra mi ha fatto detestare profondamente la politica». Detestava anche l'intellighenzia, che della politica provvidenziale era (ed è) la fanfara. Una volta scrisse: «Alcune idee sono talmente stupide che solo gl'intellettuali possono crederci. Come insetti nell'ambra, siamo ancora prigionieri del secolo di Orwell. O meglio: di Orwell e di Kafka, l'età del Processo e dei Processi di Mosca, come scrive Simon Leys in Orwell, o l'orrore della politica, un libro uscito nel 1984: «Vivere in un regime totalitario è un'esperienza orwelliana, mentre vivere in sé è un'esperienza kafkiana. Così, dal momento che la condizione umana è ciò che è, si può prevedere che nel ventunesimo secolo e in quelli che seguiranno si seguiterà a leggere Kafka, ma è auspicabile che l'evoluzione politica e il corso degli eventi siano infine riusciti a fare di Orwell uno scrittore definitivamente superato, riletto soprattutto per soddisfare una curiosità storica. Ma per ora siamo ancora molto lontani da questa meta. Non c'è oggi un solo scrittore la cui opera abbia un valore pratico più urgente e immediato». Tracollato il comunismo, ridotto il fascismo a barzelletta, oggi sale la stella dell'islamismo e impazzano le democrazie illiberali, il complottismo su scala kolossal, la cancel culture e le teoria gender. Sono le nuove maschere del Grande Fratello.
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