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Il kibbutz
Analisi di Giuliana Iurlano Tra le numerose esperienze comunitarie che sono state ideate e realizzate nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento in Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti – si pensi, solo per fare qualche esempio, alla comunità di Oneida o all’Harmony Society – emerge l’esperienza dei kibbutznik, giovani volontari che, animati dalle idee socialiste e attratti dal sionismo, partirono per la Palestina mandataria per dar vita a quell’esperimento sociale che è stato il kibbutz.
Al contrario di molte altre esperienze consumatesi in un arco di tempo abbastanza ridotto di fronte allo scontro tra realtà ed utopia, la storia del kibbutz è particolare perché anticipa e poi accompagna la nascita dello Stato di Israele, ne segue passo dopo passo le vicende belliche e politiche, vive una accesa dialettica interna sui temi della collettivizzazione e della privatizzazione, rimane spesso sospeso tra passato e futuro, partecipando in prima persona ai cambiamenti decisivi del contesto internazionale e dei conflitti mediorientali che cercano di distruggere lo Stato ebraico. “Kibbutz”, del resto, è un termine ebraico che significa “assemblea” (ma anche – come ci ricorda Claudio Vercelli – “raccolta”, “unione”, “raggruppamento” di persone) e proprio le animate e vivaci assemblee dei primi anni di vita di questa esperienza comunitaria unica possono dare il senso della condivisione, della reciprocità e della responsabilità che animava quei giovani protagonisti, completamente privi di qualunque competenza agricola, ma in grado di progettare l’“ebreo nuovo”, finalmente libero di costruire il mondo intorno a sé. In un’ottica di discontinuità – fatta di pratiche pionieristiche e di tentativi di mediazione diplomatica – va letto il romanzo corale di Assaf Inbari, “Verso casa” (Firenze, Giuntina, 2020), il cui vero protagonista è il kibbutz che cambia, si adatta, si trasforma, non senza lacerazioni interne sulle difficoltà di “vivere una rivoluzione costante”.
Si tratta, a ben guardare, dello stesso spirito di adattamento del sionismo e della sua continua tensione tra modernità e tradizione, tra realtà e sogno, in un contesto di pluralismo interno molto forte, che ha costituito l’habitat ideale in cui trovare risposte adeguate ai problemi che di volta in volta emergevano e che avrebbero potuto cambiare le basi stesse su cui il kibbutz era sorto. Inbari mette bene in evidenza queste trasformazioni profonde: da struttura inizialmente chiusa e difensiva (la torre e la palizzata), il kibbutz si trasforma suo malgrado, con l’arrivo di nuovi immigrati, in una comunità capace di curare le relazioni sociali tra i suoi membri, oltre che di autodifendersi. Da originario organismo non permanente, formato da kvutzot (“gruppi”) di 30-40 persone, che costituivano una piccola unità produttiva di tipo agricolo, il kibbutz sviluppa gradualmente una complessa rete di attività e di servizi, a cui si unisce col tempo la fondamentale necessità dell’autodifesa, prima, e della difesa dello Stato ebraico, dopo. Uno dei tanti protagonisti del romanzo di Inbar mette bene a fuoco questo concetto: “Questo Stato non è sorto dai miracoli, ed è importante per noi incidere nei nostri cuori che non è con un miracolo che ne assicureremo l’esistenza negli anni a venire. In duemila anni di esilio il nostro popolo aveva perso il senso dell’indipendenza e della sovranità e attendeva miracoli e salvezza dal Cielo. La nostra generazione di pionieri si è ribellata contro il tradizionale fatalismo ebraico, è tornata alla storia e ha mutato la sua direzione. [...] Ora sappiamo quello che altri Movimenti di liberazione sapevano prima di noi: che la vera e ultima prova di ogni rivoluzione non sta nel giorno in cui ha luogo, ma nella misura della sua forza di conservare le sue conquiste”. Ecco, il merito dei kibbutzim, forse, è stato proprio quello di aver restituito ad Israele la sua storia.
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