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Parole dense d'amore in ricordo di Osip Mandel'štam
Commento di Diego Gabutti
Osip Mandel’štam Sono in tre, seduti in cucina, intorno a un uovo sodo. Osip Mandel’štam e Anna Achmatova (insieme a Boris Pasternak, che non è presente, ma presto si farà vivo) sono i massimi poeti russi viventi. Nadežda Mandel’štam (che invece è presente) è la moglie di Osip Ėmil’evič e in futuro scriverà due grandi libri di memorie destinati a diventare dei classici (L’epoca e i lupi, Fondazione Liberal 2006, e Le mie memorie, Garzanti 1972). Achmatova e i Mandel’štam s’accingono a dividere l’uovo sodo in tre parti quando fanno irruzione i cekisti. Indossano cappotti di pelle neri e hanno sguardi cattivi. Mandel’štam viene arrestato e, prima d’uscire, incontro a tormenti per lui inimmaginabili, le due donne gli dicono che l’uovo è suo, non è il caso di dividerlo: «Via, prendilo, chissà quando ti capiterà di mangiarne un altro, Osip Ėmil’evič». Lui annuisce, spaventato. Mangia l’uovo, poi esce dalla stanza stretto tra due sbirri. Sembra un vecchio film di Woody Allen (Prendi i soldi e scappa oppure Amore e guerra) e invece è l’anno 1933 nella Russia di Stalin. Di quale colpa si è macchiato Mandel’štam? Una poesia, e nemmeno una gran poesia, ma un epigramma, l’epigramma del poeta più coraggioso della sua generazione, d’accordo, tuttavia un epigramma più esatto che bello. Non è neanche mai stato messo per iscritto, ma è stato sempre e soltanto recitato sottovoce agli amici più intimi e fidati (tra cui l’amico doppio che lo ha rifischiato al Ghepeù per l’equivalente di trenta denari in rubli e copechi). L’epigramma, per quanto sacrosanto, non piace all’Achmatova e nemmeno a Pasternak. Giusto Stalin, offendendosene, mostra d’apprezzarlo un po’.
Eccone qualche verso:
Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell'e sperse,
e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita come vermi sono grasse
e sono esatte le sue parole come i pesi d'un ginnasta.
Se la ridono i suoi occhiacci da blatta
e i suoi gambali scoccano neri lampi.
Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile:
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone;
lui, lui solo, mazzapicchia e rifila spintoni.
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
all'inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una
lieta cuccagna e un ampio torace di osseta.
Interrogato, torturato, pazzo di paura, Mandel'štam resta alla Lubianka, nelle mani dei suoi inquisitori, fino al giorno in cui Pasternak chiede grazia per lui con una lettera a Stalin. È ora di cena, e a casa di Pasternak squilla il telefono. È il montanaro del Cremlino. «Boris Leonidovič, voi direste che Mandel'štam, di cui difendete la causa, è un grande poeta?» chiede l’onnipotente. «Sì, certo, un grande poeta», balbetta Pasternak, sorpreso e spaventato insieme. «Capisco», dice Stalin, «ma direste anche che è un vostro amico?» incalza Stalin. «Be’, amico… lo conosco, ecco, da molti anni… ma forse amico è troppo», farfuglia Pasternak. C’è un lungo silenzio. «Noi bolscevichi», ridacchia alla fine il misericordioso prima di mettere giù il telefono, «difendevamo con più convinzione i nostri compagni». Mandel’štam viene liberato. Per un po’. Nel 1938 è di nuovo risucchiato nei campi, e vi si perde.
Qualche anno prima (Il rumore del tempo, Adelphi 2012) ha mostrato ai posteri le mani nude: «Non ho manoscritti, né archivi, né taccuini. Non ho una calligrafia perché non scrivo mai. Sono l’unico, in Russia, che lavora a voce, mentre intorno una canea di farabutti scrive. E sarei uno scrittore, io?» Quindi s’inoltra nella notte, «sotto il drappo nero», dove «chi va col lupo impara a ululare» e lì si perde, come altri milioni di russi al tempo dei cannibali e del Grande terrore. Lascia dietro di sé qualche «prosa», come le chiama lui, e un pugno di poesie (tra cui le poesie inedite raccolte in La pietra e altre poesie, il Saggiatore 2014, poesie prerivoluzionarie, di quando la disperazione non era ancora irrimediabile). Della Russia di prima – prima di Lenin, prima del «montanaro» e dei suoi cekisti e commissari, la Russia che lui ha ricreato in prosa nel Rumore del tempo – di quella Russia rimane soltanto «un copricapo di pelo fatto a mitra, gran sacerdote del gelo e dello Stato. Potere e gelo. L’età millenaria dello Stato. La teoria scricchiola al gelo come i pattini delle slitte di piazza. Hai freddo, Bisanzio?»
Diego Gabutti |
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