Se ne stanno seduti in silenzio su quella che sembra una panchina ma in realtà è un letto improvvisato. Tre bambini - il più piccolo ha sei anni, la grande ne ha undici - raccontano le esperienze quotidiane della vita sotto il maglio del terrore. La loro storia è quella di decine di migliaia di altri piccoli israeliani che vivono dall'altra parte della barriera che separa lo Stato ebraico dalla Striscia di Gaza. Parlano di grappoli di palloncini, di incendi, di esplosioni, qualche volta di lanci di razzi. E le lunghe ore trascorse negli spazi sicuri che la legge rende obbligatori nelle nuove costruzioni. Evocano gli allarmi notturni, la corsa frenetica nel buio verso i rifugi, il panico. “Io non ho pianto” si affretta a spiegare un ragazzino. Una bambina spiega che non vuole uscire di casa durante il giorno. Ha paura della morte che viene dal cielo, paura di non poter tornare in tempo per mettersi al sicuro. Quando sua madre insiste, fa un giretto in bicicletta nel minuscolo giardino e poi si precipita subito a casa. Nel frattempo, i media in Francia si soffermano su quella che chiamano “la reazione sproporzionata” delle rappresaglie dell’esercito. Figaro Live carica video che mostrano il cielo di Gaza illuminato da un’incursione notturna, con la guglia di un minareto ben visibile sulla destra dello schermo. Non vedremo mai le fiamme che divorano campi e foreste e che arrivano a lambire la periferia della città di Sderot. Un articolo riporta “di una donna incinta uccisa e di un bambino” sottolineando che i palloncini “non hanno fatto vittime”. Le decine di persone ferite mentre corrono ai rifugi, le case colpite dalle schegge passano sotto silenzio. Anche la voliera è stata colpita in pieno. Un pensionato vi allevava da anni uccelli multicolori. Di fronte ai piccoli cadaveri trattiene le lacrime: “Erano come dei figli per me” sospira. Dettagli, senza dubbio. L’Occidente si preoccuperebbe di più per i bambini palestinesi? Certo, ma solo quando si può incolpare gli israeliani. Basta vedere cosa succede all'incrocio delle strade nel Nord di Israele. Quando il semaforo diventa rosso, piccoli arabi spaventati, di appena sei anni, si infilano tra le macchine ferme e vengono a mendicare ai finestrini dei conducenti. Devono agire rapidamente per tornare sul marciapiede in tempo, perché le macchine partono in gran velocità quando il semaforo diventa verde. Per tutto il giorno e fino al tramonto, nel caldo opprimente dell'estate, questi bambini sfidano la morte. Il fenomeno non è nuovo. Nel novembre del 2016 la televisione israeliana aveva dedicato lunghi approfondimenti a questo tema, sottolineando che i bambini che si sacrificano in questo pericoloso esercizio non “lavorano” per se stessi, ma a vantaggio dei loro capi, degli arabi dei territori palestinesi. Uno di questi ultimi, ripreso con una telecamera nascosta, si è vantato davanti al produttore: "Ciascuno dei miei ragazzini mi frutta 400 shekel (circa 100 euro al cambio odierno) al giorno, e io ne ho parecchi.” Una parte di questa somma, meno di un quarto, va alla famiglia del bambino. Il “capo”, lui, è responsabile del passaggio del muro o della barriera di separazione ai suoi piccoli lavoratori. La stampa occidentale non ne aveva parlato. Non ne parla nemmeno oggi.
Michelle Mazelscrittrice israeliana nata in Francia. Ha vissuto otto anni al Cairo quando il marito era Ambasciatore d’Israele in Egitto. Profonda conoscitrice del Medio Oriente, ha scritto “La Prostituée de Jericho”, “Le Kabyle de Jérusalem” non ancora tradotti in italiano. E' in uscita il nuovo volume della trilogia/spionaggio: “Le Cheikh de Hébron".