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La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
13.08.2020 Festa sui quotidiani per la nomina di Kamala Harris
Editoriale di Maurizio Molinari, commenti di Daniele Raineri/Stefano Pistolini

Testata:La Repubblica - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Daniele Raineri-Stefano Pistolini
Titolo: «Joe e Kamala la ricetta liberal per riunificare l’America - 'Kamala is a cop'. E allora? - Una star al centro»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/08/2020  con il titolo "Joe e Kamala la ricetta liberal per riunificare l’America", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo " 'Kamala is a cop'. E allora?", il commento di Daniele Raineri; con il titolo "Una star al centro", il commento di Stefano Pistolini.

Su quasi tutti i giornali oggi si festeggia la nomina a candidata vicepresidente di Kamala Harris. Seguiremo l'evoluzione della campagna elettorale che porterà alla scelta del nuovo Presidente americano. Per intanto prendiamo atto della candidata vice, già nominata successore di Biden dopo 4 anni, come dire ecco la prossima America nelle mani di Obama

Ecco gli articoli:

Kamala Harris è la candidata vice presidente di Joe Biden - Il Post
Kamala Harris

LA REPUBBLICA - Maurizio Molinari: "Joe e Kamala la ricetta liberal per riunificare l’America"

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Maurizio Molinari

Con la scelta di Kamala Harris come vice, il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, Joe Biden, svela il proprio approccio alla gestione della Casa Bianca, descrive la ricetta elettorale con cui si propone di battere Donald Trump e indica un nuovo orizzonte ai liberal. Kamala Harris, senatrice della California, puntava lei stessa alla nomination democratica e nel primo dibattito tv fra i rivali si distinse per un duro attacco contro Biden, accusandolo di essersi opposto alla fine della segregazione sui bus scolastici quando lei era ancora bambina. Sollevare il sospetto di razzismo nei confronti dell’ex vicepresidente di Obama ritagliò ad Harris una posizione estrema che non le ha giovato nella sfida delle primarie. Ma Biden scegliendola come vice dimostra di far prevalere l’apprezzamento delle sue qualità politiche e personali sul retaggio di quello scontro. È un approccio che ricorda la scelta di Barack Obama di offrire ad Hillary Clinton il Dipartimento di Stato dopo averla sconfitta nelle infuocate primarie democratiche del 2008 e rientra nell’idea che Abramo Lincoln aveva della guida della Casa Bianca affidandola ad un team di rivali politici. Ovvero, l’amministrazione degli Stati Uniti è una macchina così estesa e complessa — dovendo guidare un’Unione federale di 50 Stati — che impone al presidente di avere sempre a disposizione più opzioni ed a tal fine è preferibile avere stretti collaboratori rivali fra loro, fino al punto da competere con lo stesso comandante in capo. Richiamarsi ai precedenti di Lincoln e Obama sul “team di rivali” significa per Biden voler costruire, sin dal proprio vice, una squadra di governo basata sulla vivacità interna nella creazione nelle linee guida e non sul tacito avallo ad ogni iniziativa personale del presidente. La seconda novità ha a che vedere con la ricetta per battere Trump. Poiché la presidenza degli Stati Uniti si vince ottenendo almeno 270 dei 538 voti del Collegio elettorale assegnati dai singoli Stati sulla base del numero degli elettori, finora la sfida fra i candidati è stata nel vincere gli Stati necessari a raggiungere questo quorum. Si è trattato dunque di sfide geografiche e, di conseguenza, i vicepresidenti sono stati molto spesso scelti per assicurarsi — con alterne fortune — singoli Stati in bilico, considerati decisivi per raggiungere il traguardo. Ma Kamala Harris viene dalla California, roccaforte democratica, e dunque la strategia elettorale che svela la prima donna nera candidata alla vicepresidenza è tutt’altra: puntare su genere e razza per mobilitare in massa l’elettorato delle donne, delle minoranze e, soprattutto, degli afroamericani. È un approccio che può consentire a Biden di conquistare gli Stati democratici persi da Hillary Clinton nel 2016 per una manciata di voti nei centri urbani — Michigan, Wisconsin e Pennsylvania — come anche quelli vinti da Donald Trump con margini molto esigui — North Carolina e Georgia — nell’ambito di una lettura della sfida elettorale dove a prevalere saranno non dinamiche locali nei singoli Stati ma un fenomeno nazionale: la richiesta di donne, afroamericani è più in generale delle minoranze di avere pari diritti. In questa maniera Joe Biden punta a sfruttare l’emozione innescata nel Paese dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd da un agente di Minneapolis e la conseguente ondata nazionale di proteste anti-razzismo nella cornice di una battaglia politica tesa ad espugnare la Casa Bianca con un voto a valanga contro Donald Trump. Capace di far nascere una nuova coalizione democratica che può avere nei giovani la sua spina dorsale. Infine, ma non per importanza, l’orizzonte dei liberal perché la senatrice Kamala Harris, 55 anni, durante i sei anni da Attorney General della California ha avuto posizioni sull’ordine pubblico e sulla polizia in particolare assai distanti da quelle oggi incarnate da Black Lives Matter ma negli ultimi mesi si è avvicinata all’ala più progressista su temi come la sanità pubblica, il controllo sulle istituzioni finanziarie, la difesa dell’ambiente e la lotta al razzismo fino a riconoscersi nelle parole pronunciate da Obama durante le esequie di Joe Lewis, ex compagno di marce di Martin Luther King: «Ognuno di noi può convergere nell’indicare l’imperfezione di questa nazione, sfidare lo status quo e decidere che è nel nostro potere rifare il Paese che amiamo». Oltre ad essere la prima donna nera, di origine indiana e caraibica, ad arrivare ad un “battito di cuore dalla presidenza” Harris esprime dunque una mediazione fra le diverse anime — moderata e radicale — dell’arcipelago liberal che consente a Biden di presentarsi agli elettori con l’obiettivo di riunire l’America dopo le fratture causate da Donald Trump per “rifare la nazione”. Rivolgendosi anche al ceto medio bianco degli Stati del Mid-West e del Sud, per evitare che si rifugi in massa da Trump come avvenuto quattro anni fa.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: " 'Kamala is a cop'. E allora?"

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Daniele Raineri

Roma. Nel gennaio 2019 una professoressa di Legge di San Francisco, Lara Bazelon, scrisse sul New York Times un oped devastante contro Kamala Harris, che allora era candidata alle primarie per diventare presidente. L'editoriale faceva a pezzi l'immagine che Kamala Harris amava dare di sé, quella del "procuratore progressista". Inserita nel meccanismo della legge, ma con idee sue che contribuivano a rendere il sistema migliore e più umano. La Bazelon scriveva invece che Harris non è per nulla progressista, e portava una serie di argomenti non senza un certo rancore: non si opponeva alla pena di morte, non aveva tentato di rimediare a clamorosi errori processuali che tenevano gente innocente in galera e ogni volta che arrivava il momento di fare una scelta di politica progressista si asteneva - in particolare su una legge che permetteva di punire persino con la detenzione i genitori di studenti che saltavano la scuola. L'accusa era: Harris non è un'eroina antisisterna, fa parte del sistema e ne approva gli aspetti peggiori. Quel singolo articolo è poi diventato la madre di tutte le critiche da sinistra contro Kamala Harris, riassunte nello slogan: Kamala is a cop. Kamala è un poliziotto. Roba che suonava brutta per un settore di elettori democratici nel 2019, figurarsi adesso nel 2020 mentre il paese è spaccato dall'uccisione di George Floyd davanti ai telefonini dei passanti su un marciapiede di Minneapolis. Stare in equilibrio in quel ruolo di procuratore nera, prima distrettuale e poi statale, in California - lo stato con le idee più liberal della nazione, ma anche uno stato da cinquanta milioni di persone e metropoli come Los Angeles - è stato complicato per Harris. Durante la sua prima campagna elettorale, per diventare procuratore a San Francisco, era considerata molto di sinistra, una che non aveva paura di affrontare i poliziotti se pensava che avessero fatto qualcosa di sbagliato. Ma poi c'è stata una svolta, che spiega il suo appiattimento come procuratore negli anni successivi. La data della svolta è il 10 aprile 2004. Un poliziotto in borghese di 29 anni, Isaac Espinoza, durante un turno straordinario di lavoro, quando invece doveva essere già a casa, vede un sospetto, prova a fermarlo, quello si gira, ha in mano un fucile d'assalto Kalashnikov, spara una raffica e lo ammazza. Espinoza aveva una moglie e una figlioletta di quattro anni, è il primo poliziotto ucciso in servizio in dieci anni, l'assassinio riscuote un'attenzione enorme. Tre giorni dopo viene fermato l'assassino, ha ventun anni, se ne occupa la Harris e la prima cosa che dice ai giornalisti è che merita il massimo della pena, cioè l'ergastolo senza possibilità di scarcerazione. Da parte sua è una scelta quasi obbligata, gli elettori californiani sono in maggioranza contro la pena di morte e lei aveva altre elezioni davanti. I poliziotti sono furiosi, il procuratore della città ha subito escluso in partenza che chiederà la pena di morte e il processo non è nemmeno cominciato. Molti dubitano che il colpevole, così giovane, riceverà l'ergastolo. II funerale è un evento di massa, ci sono centinaia di poliziotti in divisa e di funzionari dello stato e della città, la vedova e la figlia davanti alla bara, partecipa anche la senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, che è nel mezzo della battaglia congressuale sulla legge contro le armi d'assalto e non può apparire debole. L'hanno invitata a parlare, lei dice: "Questa non è soltanto la definizione di tragedia, è proprio quella circostanza speciale indicata dalla legge sulla pena di morte". La senatrice si riferisce a una legge californiana del 1973, che indica l'omicidio di un agente come una delle circostanze speciali che possono giustificare la pena di morte. Ovazione dei poliziotti, che si girano tutti verso Harris. Smentita in pubblico dal Partito democratico durante il funerale di un agente ucciso. Quel giorno segnò il momento della spaccatura fra la polizia di San Francisco e il procuratore, che in tutte le candidature successive non ricevette mai l'endorsement dell'associazione degli agenti. Negli anni successivi Harris diventerà molto cauta quando si tratta di prendere posizione. E spesso la cambierà. Nel suo libro del 2009 scrive che ci vorrebbe più polizia nel le strade perché tutti i cittadini rispettosi della legge si sentono più sicuri quando vedono più agenti, ma quest'anno ha detto al New York Times che volere più poliziotti nelle strade è una cosa da status quo, molto sbagliata. E' ovvio che quando la squadra del candidato democratico, Joe Biden, ha deciso di valutare e approvare la scelta di Harris come vice conosceva tutte queste cose. Sa che sarà una vice antipatica all'ala radicale del partito e che su Twitter c'è molta gente scatenata contro di lei. Ma Biden è arrivato sin qui perché ignora le mille frecciatine su Twitter e parla a un pubblico molto più ampio, l'elettorato americano che non vuole colpi di testa e che si chiede come rimediare al problema Trump senza ipercompensare a sinistra. Questa sua posizione gli ha permesso di demolire gli altri candidati, inclusi quelli più radicali, durante le primarie. Se il ragionamento è questo, il profilo di Kamala potrebbe essere quello giusto per un pubblico che vuole essere rassicurato.

IL FOGLIO - Stefano Pistolini: "Una star al centro"

Roma. Anche se nel produrre la sua scelta non ha sorpreso nessuno, Joe Biden selezionando Kamala Harris come candidata alla vicepresidenza nel ticket elettorale per il voto del novembre ha fatto la mossa giusta. A occhio nudo si percepisce come l'offerta progressista si sia rafforzata con la discesa in campo del la 55enne senatrice della California e si può scommettere che d'ora in poi l'attrazione del rush perla Casa Bianca sarà lei, peraltro sufficientemente attrezzata per non cadere nei trabocchetti disseminati sul suo cammino. Biden insomma ha fatto un altro passo verso la vittoria, perché aver annesso al ticket una come la Harris significa tante cose nello stesso tempo, a cominciare dal segnale di sensibilità verso l'elettorato nero e le minoranze razziali, in questo momento in prima linea nella sofferenza sociale americana. Gli uomini e soprattutto le donne afroamericane avranno un'ottima ragione per andare a votare democratico, nella consapevolezza della rappresentatività incarnata dalla futura vicepresidente. E la stella di Kamala comincerà subito a brillare ben più di quanto abbia fatto quella baluginante del veterano Biden. Lui, del resto, ha capito presto che proprio nel "non fare" risiedeva il segreto per fregare la Casa Bianca a Trump e alla sua insipienza. Diverso il discorso per la Harris, che sale alla ribalta con una prospettiva di medio termine elettrizzante: Biden ha già reso noto che la sua sarà una scommessa secca. Se vincerà, tra quattro anni, a 81 primavere suonate, non si ripresenterà. Dunque l'abbrivio verso la seconda poltrona d'America rappresenta per Kamala anche il trampolino di lancio verso la possibile prima presidenza di una donna nella storia della nazione. Motivi di straordinaria attrazione mediatica, che fanno di lei, da subito, la protagonista dello scontro finale. Del resto, nel faccia a faccia col pari grado Mike Pence, quando arriverà il momento dei dibattiti tv, la Harris dispone di tutto l'arsenale politico, il vigore e della presenza necessaria per aggiudicarsi la posta. Gli americani hanno già imparato a conoscerla nelle commissioni che hanno messo sulla graticola il procuratore generale William Barre il futuro giudice della Corte suprema Brett Kavanaugh, e si sono fatti un'idea del personaggio. A completare il quadro di garanzie, il suo background nel complicato scenario californiano, prima donna nera eletta procuratore distrettuale a San Francisco e procuratore generale della California. Anche le sue credenziali formative sono pura contemporaneità liberal: padre immigrato dalla Giamaica, madre immigrata dall'India, lei laureata alla Howard University, il tempio della migliore black culture. Non a caso Barack Obama si è affrettato a benedirla: "E' preparata", ha detto, "ha trascorso la carriera difendendo la Costituzione e battendosi per i deboli. Questa è una buona giornata per il paese". Al Senato la Harris ha sostenuto un progetto di legge per rendere il linciaggio un crimine federale, ha lavorato per porre fine alle disparità razziali nel rispondere al COVID-19, ha fatto pressioni per il rilascio dei bambini migranti durante la pandemia. Come procuratore generale, Harris ha citato in giudizio società come Chevron e Bp per danni all'ambiente e ha imposto agli agenti di Polizia l'utilizzo delle body-cam. Nel 2019 ha annunciato la candidatura per le primarie dem, è partita bene, ha messo in luce telegenia e carisma, ma ha lasciato la corsa prima delle consultazioni. Motivazione: pochi soldi. Ma si può anche pensare a una strategia più raffinata: un grande spot e poi porsi in posizione d'attesa, dal momento che la sua figura era troppo potente per passare inosservata a chiunque cercasse accesso verso l'insondabile elettorato multirazziale. Le mobilitazioni post George Floyd, il malessere provocato dal Covid, la devastante gestione da parte dell'Amministrazione trumpiana hanno fatto il resto. Se la tiepida affluenza alle urne degli elettori neri nel 2016 contribuì a condannare Hillary contro Trump, con Kamala le cose dovrebbero andare nella direzione opposta. Anche se ci sono dei "se". Perché questo è vero oggi. Ma mancano dieci settimane alle urne e il campo repubblicano deve giocarsi tutto per non fare i conti con una disfatta. E la parola-chiave per il ticket Biden-Harris a questo punto dev'essere "equilibrio". Rassicurare e non eccitare l'elettorato innervosito dalla defaillance di Trump, ma infastidito da questo sodalizio tra il vecchio che avanza e la modernità che preme. Perché, inutile negarlo, c'è una grande America che guarda con fastidio a un personaggio come Kamala, ai suoi argomenti, alla sua lingua veloce e sferzante. Kamala, nuova sensazione della politica Usa, dovrà cercare d'essere "eccitante", come già la definisce l'ala progressista della nazione, ma "non troppo eccitante", provocando un effetto boomerang in chi non crede all'America come al paese del cambiamento. Dice Leah Daughtry, veterana democratica: "Con tutte le questioni relative al razzismo sistemico, è importante avere una donna nera nel ticket, perché si tratta di capire il momento in cui ci troviamo". Infatti: ma questo è il momento di vincere, non di fare rivoluzioni. Ma Kamala, tipa lungimirante ("Non voglio ristrutturare la società", ha detto al NY Times. "Cerco di occuparmi dei problemi che di notte tengono sveglie le persone") questo di sicuro lo sa.

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