Fascismo islamico,censura se lo scrive un musulmano
Recensione di Diego Gabutti
Il libro è uscito nel 2017, come prevedibile è stato completamente ignorato dalla critica. Scritto da un musulmano, critico verso l’islam, anche se pubblicato da un editore importante, titolo e contenuto l’hanno costretto al silenzio. IC pubblica la recensione di Diego Gabutti e invita a leggerlo, verrà incluso fra i ‘libri raccomandati’.
Hamed Abdel-Samad, Fascismo islamico. Garzanti 2017, pp. 280, 16,00 euro, eBook 10,99 euro.
«Ovunque i fascisti, i comunisti e gl’islamisti» sono andati «al potere nel corso della loro storia», scrive lo storico e politologo egiziano Hamed Abdel-Samad nel suo Fascismo islamico, «le società sono diventate prigioni a cielo aperto, i cui detenuti – i cittadini – vengono controllati ventiquattr’ore al giorno. Il pluralismo è stato ed è tuttora considerato una minaccia, mentre il consenso sociale è imposto artificialmente attraverso la violenza e l’intimidazione. Vi è una sola ideologia; nella migliore delle ipotesi i dissidenti vengono additati come voltagabbana e traditori, nella peggiore eliminati». Non è una semplice questione di somiglianze (il comunismo somiglia all’Islam, che somiglia al fascismo). È che si tratta della stessa cosa: l’idea, antica e incessantemente riproposta, d’una società completamente amministrata. Escatologia politica, aperta ai soli devoti, preclusa a eretici e dissidenti: in gergo laico un’utopia d’eguali, in lingua religiosa la completa sottomissione a Dio. Già gli anarchici, in epoche lontane, ammonivano che il marxismo, con la sua ridicola pretesa di fondarsi su leggi storiche oggettive, era un Islam socialista che si proponeva di rinchiudere il proletariato in una caserma e d’eliminare tutti i parassiti, non soltanto le classi e i gruppi sociali ostili ma anche ogni forma d’individuazione: ciascuno doveva essere identico a ogni altro. Nell’islam marxista, avvertivano gli anarchici, ti converti oppure muori. Convertirsi o morire: è lo stesso aut-aut proclamato nel Novecento (e non soltanto negli ultimi venti-trent’anni) da una jihad legata a filo doppio con i totalitarismi. Mussolini Dux si proclamò Spada dell’Islam. Fu una specie di Spada dell’Islam anche Adolf Hitler, che ebbe per consigliere politico il massimo tifoso e fautore della Shoah, il Gran Muftì di Gerusalemme Amīn al-Ḥusanī, esule a Berlino durante la seconda guerra mondiale e più tardi principale sponsor di Yasser Arafat, che lo chiamava «zio» (come racconta Mirella Serri nel suo Bambini in fuga, Longanesi 2017). Nessuno sembra ricordarsene più, ma alla fine degli anni settanta, quando gli ayatollah conquistarono l’Iran alla legge coranica, «lo zelo rivoluzionario dell’ayatollah Khomeini, nonostante le evidenti convinzioni antidemocratiche e disumane, affascinò molti oppositori di sinistra dello scià», e anche una parte della «nuova sinistra» occidentale (ve ne farete una mezza idea sfogliando vecchi numeri di Lotta Continua in emeroteca).
Devoti a un’idea di «società omogenea ed ermeticamente sigillata», comunisti, nazifascisti e islamisti sono parte della stessa costellazione. Se distinguere tra Islam, «religione di pace», e islamismo, la sua pretesa «deviazione fondamentalista», non è mai stato facile tranne che per le segreterie politiche (e le gazzette) politicamente corrette, dall’11 settembre 2001 distinguere è diventato semplicemente impossibile, come scrive Hamed Abdel-Samad. «Chi va considerato un islamista? Un membro della milizia che ordina le decapitazioni e brandisce la bandiera nera, o anche qualcuno che semplicemente pensa che la legge islamica sia superiore a quella della propria società? Credo che un islamista possa essere anche un padre che ritira la figlia dalle lezioni di nuoto o una madre che la mette in guardia dal fare amicizia con non musulmani che mangino carne di maiale, bevano alcol o abbiano rapporti sessuali peccaminosi». Come affrontare – da laici, da illuministi e da liberali – il problema della jihad, diventata una minaccia globale, qualunque cosa se ne fantastichi nei talk show buonisti? «Il problema che deve fronteggiare il mondo», dice Abdel-Samad, «non è una distorsione del concetto di jihad: è la jihad stessa, com’era stata concepita e praticata dal profeta dell’Islam e dai suoi successori. Il problema è che il Corano suddivide il mondo in credenti e non credenti. Il problema è l’inviolabilità del Profeta e del Corano. Il problema è la jihad vista come un fine, un conflitto in cui si dovrà combattere fino alla fine dei giorni. […] I teologi hanno lavorato diligentemente per cercare di disinfettare l’immagine dell’Islam. Alcuni hanno ammesso che le sacre scritture, fuori contesto, sono servite a legittimare le atrocità, ma nessuno ha ancora osato suggerire che la shari’a e la jihad possano essere concetti obsoleti nel XXI secolo». Se non vuole autodistruggersi, al pari del comunismo e del fascismo, l’Islam ha bisogno di riforme, le stesse riforme che fecero del cristianesimo, la religione dell’Inquisizione e dei roghi, una religione compatibile con le libertà politiche e civili. Ma «più che d’un Martin Lutero, ciò di cui l’Islam ha bisogno per stimolare le riforme è un Erasmo, un Voltaire, o un Charlie Hebdo».
Diego Gabutti