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L'Espresso Rassegna Stampa
10.08.2020 Ritratto di Stalin, criminale sanguinario anche in famiglia
Analisi di Antonio Monda

Testata: L'Espresso
Data: 10 agosto 2020
Pagina: 90
Autore: Antonio Monda
Titolo: «Le mogli, i figli, i cognati. Così Stalin fece un massacro anche nella sua famiglia»
Riprendiamo dall' ESPRESSO, con il titolo "Le mogli, i figli, i cognati. Così Stalin fece un massacro anche nella sua famiglia", l'analisi di Antonio Monda.

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Antonio Monda

Quando il Partito comunista italiano augurava
Per non dimenticare la Storia

Mi sono sempre chiesto cosa pensasse la sera, prima di andare a letto. O in punto di morte, quando si rese conto che stava finendo tutto. Che non ci sarebbe stato un domani, e nel giro di poche ore sarebbe diventato un corpo in decomposizione. E poi ossa, cenere e silenzio eterno. Come quello delle sue vittime. Nel suo caso non ci sarebbe stato certo l'oblio, e aveva dedicato tutta la forza di cui era capace per evitare il rischio dell'infamia. Chissà cosa avranno pensato Hitler, Mao, Pol Pot, Mengele, Videla, Idi Amin Dada. O Basilio II, l'imperatore di Bisanzio di stirpe macedone. Sotto il suo comando, il suo impero raggiunse un'estensione che non aveva da cinquecento anni. Ma per comprenderne i metodi bisogna rifarsi al suo soprannome bulgaroctono, l'uccisore di bulgari: nella battaglia di Kleidion ne prese prigionieri diecimila, e li rimandò in patria a gruppi di mille, dopo averli accecati tutti. Ogni gruppo era condotto da un orbo.

Alla vista di quello scempio, il re di Bulgaria Samuele morì di crepacuore. Chissà cosa hanno pensato nei momenti di intimità e riflessione i dittatori, i guerrieri, i rivoluzionari. Ma anche i milioni di uomini e donne senza fama e senza grandezza che hanno ucciso, stuprato, devastato, umiliato. Che hanno impartito dolore e ingiustizia sin da quando il mondo ha una memoria. Ma il caso di losif Vissarionovich Dzhugashvili è diverso: la mostruosità dei suoi atti ha raggiunto una quantità che non ha paragoni, e l'abominio nel quale ha costretto a vivere la sua gente, e coloro che furono sottoposti al suo potere, ha pesato in maniera indelebile anche su coloro che gli sono stati vicini. Quelli che per qualunque altra persona definiremmo come "i cari". II suo sorriso era esibito esclusivamente, e molto raramente, per sigillare l'immagine pubblica di padre della patria e speranza dell'umanità, ma in privato non ci sono ricordi di atteggiamenti miti, e tantomeno di dolcezze. Del resto andava fiero del soprannome di "Stalin", acciaio, almeno quanto detestava il nomignolo con cui veniva chiamato da piccolo, Koba. E la sua risata, come ha scritto Martin Amis in un libro memorabile, rappresentava il preludio ed il contraltare di venti milioni di morti. La leggenda dice che il suo ultimo, o forse unico momento di tenerezza, lo ebbe di fronte al cadavere della prima moglie Ekaterina Svanidze, detta Kato, morta di tifo dopo soli due anni di matrimonio. In "Trionfo e Tragedia" Dmitrij Volkogonov parla di una foto che ritrae Stalin «magro, piccolo, con i capelli spettinati, ritto presso la bara con uri espressone di autentico dolore». Ma l'immagine è scomparsa, probabilmente per volontà dello stesso Stalin, che voleva cancellare ogni segno di "mollezza" dal suo passato. E probabilmente è apocrifa la battuta che il dittatore avrebbe pronunciato sulla bara: «Quella creatura ha addolcito il mio cuore di pietra. È morta, e con lei sono morti i miei ultimi sentimenti affettuosi verso tutti gli esseri umani». Comunque sia, della scomparsa dei suoi ultimi sentimenti affettuosi si accorsero certamente i familiari di Kato: il fratello Aleksandr, che di Stalin era stato intimo amico, venne fucilato come spia. La moglie venne arrestata e morì di stenti in un campo di lavoro, mentre il figlio venne spedito in Siberia come "nemico del popolo". Persino la sorella di Kato, di nome Marjia, venne arrestata e morì in carcere. Dalla prima moglie Stalin ebbe un figlio chiamato Jakov, che il dittatore disprezzò sin da quando era bambino. Gli ricordava le sue origini umili e georgiane, e a detta di molti storici il disprezzo si tramutò ripetutamente in violenza fisica e umiliazione psicologica. Poi si trasformò in totale indifferenza quando Stalin sposò la segretaria diciassettenne Nadezda Alliluyeva, Nadjia , una donna ferma e colta, che aveva creduto sinceramente nel comunismo e che decise di uccidersi sparandosi in testa nel quindicesimo anniversario della rivoluzione d'Ottobre.

Vivendo accanto a Stalin, aveva toccato con mano troppe mostruosità, e ne aveva appreso molte altre, di agghiacciante efferatezza, studiando chimica all'Accademia industriale di Mosca. I compagni di studio le raccontavano di una terribile carestia in Ucraina, dove la collettivizzazione forzata aveva fatto cinque milioni di vittime. E di massacri compiuti ai danni dei contadini. Il numero delle vittime era talmente alto che creava un effetto di raggelante spersonalizzazione. ma rimase sconvolta dalla storia di due fratelli arrestati per smercio di carne umana. Secondo Amis, Stalin disse alla moglie che quanto le avevano raccontato erano solo “pettogolezzi trozkisti». ma l'insistenza di Nadjia portò a una purga all'interno dell'Accademia e in tutte le università che avevano fornito manodopera alla collettivizzazione. Fu quello il momento in cui parlare di carestia in Urss diventò un crimine punibile con la pena capitale. La sera dei festeggiamenti per l'anniversario della rivoluzione. Nadjia litigò con il marito durante il banchetto organizzato al Cremino. Stalin l’aveva invitata a bere, e lei era astemia: si trattava chiaramente di una provocazione. Nadja rispose che voleva essere lasciata in pace, e Stalin le lanciò addosso una sigaretta accesa. Non era la prima volta che il marito la umiliava in pubblico: nelle sue memorie Kruschev ricorda che una volta la trascinò per i capelli davanti a tutti sul pavimento di un salone da ballo. Ma quella sera. dopo aver lanciato per terra la sigaretta ancora accesa. Nadjia si alzò dal tavolo d'onore e uscì nel cortile del Cremino con la moglie di Molotov. Rimase all'aria aperta a lungo. cercando di calmarsi. Poi si ritirò nel suo appartamento. scrisse un biglietto che venne in seguito occultato e si sparò alla tempia. Quando fu informato. Stalin fece diffondere la voce che era morta per un attacco fulminante di peritonite. ma il giorno dopo. di fronte al suo cadavere. disse «mi ha lasciato da nemica». Poi si scatenò con la famiglia. che conosceva sin da quando era giovanissimo. e dalla quale. molti anni prima. era stato accolto come un figlio. La sorella Anna venne arrestata per spionaggio. Il marito venne prima arrestato con la solita accusa di 'nemico del popolo". e poi fucilato. Persino la cognata e la moglie di uno zio vennero deportati in un campo di prigionia. Mi chiedo cosa abbiano pensato loro, nel momento in cui hanno visto la propria fine, causata dal solo motivo di far parte dei parenti acquisiti. Sapevano di vivere in uno stato in cui Stalin considerava un'eroina la "grande Nikolaenko, detta la sferza di “Gev", una donna che con le sue informazioni fece uccidere o mandare in Siberia più di ottomila persone. Erano anni in cui un impiegato su cinque era un informatore della Ceka, spesso per prevenire informazioni sul proprio conto. Quando la Nikolaenko camminava per Kiev le strade si svuotavano: la sua sola presenza incuteva il terrore. Pavel Postvsev, segretario del partito in Ucraina e membro del Politbjuro, cercò di limitare quel potere di delazione che aveva generato un terrore I funerali di Nadezda Allilueva, "Nadjia", la seconda moglie di Stalin, suicida nel 1932 ormai incontrollato. Intervenne Stalin in persona, che degradò il dirigente diffidente con le parole: «La Nikolaenko ha ragione, e Kiev ha torto». Poi diede a a Postvsev una punizione esemplare: fece fucilare il suo primo figlio e mandò gli altri due in campi di lavoro. Ma non era abbastanza: la moglie Tamara venne violentata e torturata per intere settimane. Mi chiedo cosa abbiano saputo di queste storie le persone vicine a Stalin. E come queste mostruosità - solo un’infinitesima parte, rispetto a uri ecatombe di venti milioni di persone - abbiano influito sulla loro psiche e la loro coscienza. Penso al povero Jakov, che fu schiacciato da un padrone che non fu mai padre, e ai figli che Stalin ebbe da Nadjia: Vasilj e Svetlana Martin Amis paragona il primo a Udai Hussein, il più violento dei figli di Saddam. Era debosciato e con tratti da psicopatico, e divenne un alcolizzato sin dall'adolescenza. Dovunque andasse nell'immenso territorio dell'Unione Sovietica gli era consentito tutto. ma sapeva fin troppo bene di valere solo in quanto figlio di suo padre. Era terrorizzato da Stalin almeno quanto gli altri erano terrorizzati da lui.

Decise di non sapere troppo di quanto facesse in realtà il padre, e scelse di diventare pilota dell'aviazione militare. Fece ovviamente una carriera rapida sino al ridicolo, mentre fioccavano rapporti segretissimi sulla sua totale incompetenza e la violenza gratuita ed estrema. Meno di un mese dopo la morte di Stalin, venne congedato e gli fu vietato persino di indossare la divisa militare. Poi venne anche imprigionato e mandato al confino. prima di morire alcolizzato a quarantuno anni. Molto diversa la sorte della sorella Svetlana: è colei che nella famiglia cercò di vivere con maggiore indipendenza rispetto al tragico destino del nome. Ma prima dovette superare. inevitabilmente, una serie di strazi. C'è una foto che la ritrae da bambina che riassume meglio di ogni racconto il mondo in cui fu allevata: Svetlana è ritratta sulle ginocchia di Lavrentiv Berja. Entrambi guardano l'obiettivo. Lei con la scherzosa insolenza di una bambina, lui con la stessa impassibilità con cui condannava alla tortura e poi a morte gli oppositori. Stalin è sullo sfondo: è totalmente immerso nei suoi pensieri e sta leggendo i giornali con accanto una guardia del corpo. All'epoca Nadjia si era già suicidata e Stalin aveva affidato l'educazione della piccola a Beria, capo della sicurezza dellUnione Sovietica e della polizia segreta. Era il responsabile diretto di centinaia di migliaia di morti e in seguito fu sospettato di essere stato il responsabile della morte dello stesso Stalin. Quando capì che era giunto il suo momento. implorò in ginocchio di essere graziato, come tutte le sue vittime. e giurò fedeltà al comunismo. Beria pianse. si disperò, si umiliò, cercò disperatamente lappoggio di Svetlana ma venne condannato alla fucilazione con l'accusa di altro tradimento. terrorismo e attività controrivoluzionaria. Nikolay Shatalin, segretario del comitato centrale del partito comunista, lo accusò anche di numerosi atti di sadismo sessuale. Svetlana ha parlato sempre poco del suo padrino, come di tutte le relazioni importanti della sua vita: quando aveva soltanto sedici anni si innamorò perdutamente di Aleksei Kapler. un cineasta ebreo che ne aveva quaranta più di lei.

Appena lo venne a sapere. Stalin spedì Kapler nel campo di lavoro di Vorkuta, al confine con il circolo polare artico. con l'accusa di essere una spia britannica. L’anno successivo Svetlana sposò uno studente di nome Grigori Morozov a cui diede subito un figlio che volle chiamare Josif. come il padre. Due anni dopo divorziò e Fanno successivo si risposò con Yuri. il figlio di Andrei Zhdanov. Da questa unione nacque una figlia. alla quale Svetlana non volle dare il nome della madre, ma quello della prima moglie di Stalin. Ekaterina. Anche questo matrimonio fallì in breve tempo. e fino alla morte del padre, nel 1953. non ebbe. almeno ufficialmente, altre relazioni. Soltanto dieci anni dopo, quando adottò il cognome della mamma e cominciò a mantenersi come traduttrice. Svetlana Alliluveva ebbe un legame duraturo con Brajesh Singh. uno studente indiano, che si era trasferito in Unione Sovietica per realizzare i propri ideali comunisti. Era una persona sensibile e delicata, ma molto cagionevole di salute, e quando morì in seguito a un enfisema. Svetlana disperse le sue ceneri nel Gange. È il momento della svolta clamorosa: il 6 marzo del 1967 chiese asilo politico all’ambasciata americana in India, che le accordò lo status di rifugiata e la fece entrare negli Stati Uniti dopo una tappa a Roma e in Svizzera. Uno dei suoi primi atti fu quello di denunciare in una conferenza stampa gli abomini del regime del padre, senza fare troppi sconti a quanto era successo con Kruschev e stava accadendo con Brezhnev. Parlò anche del biglietto lasciato dalla madre prima del suicidio, spiegando che la tragica scelta era causata da motivi in parte personali e in parte politici. Le sue dichiarazioni suscitarono uno scandalo enorme e contribuirono ad aprire gli occhi di molte persone che ancora credevano nel sol dell’avvenire comunista. Ma la sua vita ebbe una nuova svolta, alquanto bizzarra. Venne invitata da Olgivanna, la terza moglie di Frank Lloyd Wright, a passare un periodo con loro a Scottsdale, in Arizona. Olgivanna era una donna serba dalla forte personalità, infusa di un misticismo new age che influenzò anche l'opera del marito. Svetlana rimase affascinata dalla sua spiritualità, ma si rese conto presto che la donna aveva voluto conoscerla perché aveva perso una figlia che aveva il suo stesso nome.

Non solo, cercò di persuaderla a sposare il genero rimasto vedovo. William Wesley Peters. Era il pupillo del marito e un valente architetto. Svetlana accettò e da quel momento si fece chiamare Lana Peters. I due ebbero una figlia, che chiamarono Olga, ma poi Stalin con la figlia Svetlana net 1937, quando lei aveva 11 anni anche questo matrimonio falli, soprattutto a causa dell'ingombrante presenza di Olgivanna. A quel punto Svetlana cominciò a viaggiare: visse in Inghilterra. in Russia, poi ancora negli Stati Uniti e infine di nuovo in Inghilterra, dove si convertì a sorpresa al cattolicesimo. Morì nel 2011. e non parlò mai più della sua infanzia e di suo padre. Tuttavia la storia più tragica è quella di Jakov, il figlio che Stalin aveva detestato sin dalla nascita. Era una persona estremamente sensibile e naturalmente gentile, caratteristiche che agli occhi del padre apparivano quelle di uno smidollato. Fu allevato dai nonni materni in Georgia e quando tornò a Mosca aveva ormai acquisito un accento che ricordava a Stalin le sue provenienze umili e periferiche. Nadjia lo accolse con affetto, ma il padre non perdeva occasione per umiliarlo in pubblico. Jakov ne soffriva enormemente: quell'uomo spietato e potentissimo era suo padre. e lui continuava ad amarlo, anche quando ne riceveva insulti e percosse. Ma la ripetizione costante e sempre più feroce di vessazioni ne scosse irreversibilmente la psiche: alla fine degli anni venti Jakov tentò il suicidio, e Stalin. quando lo seppe si limitò a commentare: «Non è nemmeno capace di prendere la mira». Si arruolò nell'esercito e divenne un soldat o molto più valente del fratellastro Vasilij. Ma non fece alcuna carriera, e quando venne arrestato in combattimento. Stalin si trovò in una situazione di enorme imbarazzo. Una sua legge. promulgata nel 1941. decretava che tutti gli ufficiali catturati erano "perfidi traditori e le loro famiglie dovevano essere sottoposte ad arresto. Stalin diede l'ordine di arrestarne la moglie. nazisti cercarono di negoziare uno scambio, ma Stalin si limitò a dire «non ho nessun figlio di nome Jakov». Temeva che quel ragazzo debole potesse metterlo ulteriormente in imbarazzo, ma non fu così. Jakov passò fanno successivo in tre differenti campi di concentramento, poi cominciò ad aver paura di non reggere alle pressioni e alle possibili torture da parte dei suoi aguzzini. Temeva di rivelare chissà cosa sul suo paese. di poter creare un danno irreparabile all'immagine del comunismo e, soprattutto di deludere ancora una volta suo padre. Una notte, nel campo di Sachsenhausen. cominciò a correre all'impazzata verso il filo spinato di recinzione. Sapeva bene quello che sarebbe successo. e per evitare ogni rischio si mise anche a urlare. Voleva che si accorgessero di lui. Il soldato sulla torretta di guardia lo individuò subito con il riflettore. Non gli urlò neanche di fermarsi e lo colpì con una sventagliata del mitragliatore sulla schiena. La sua morte fu l'ultimo modo con cui disse al padre che lo amava, e che credeva fermamente negli ideali nei quali aveva forgiato l'Unione Sovietica.

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